Ieri sera ho rivisto un film allucinante, che consiglio, decisamente, a chi, in questo periodo, ha ancora qualche perplessità sul perché la violenza chiami la violenza.
“When they see us”, la serie sul caso che sconvolse l’America nera.
La regista Ava DuVernay ripercorre su Netflix in cinque puntate la vicenda dei ragazzi – quattro afroamericani e un ispanico – accusati ingiustamente di un stupro e aggressione nel 1989. Nella notte del 19 aprile 1989, appunto, una 28enne operatrice finanziaria di Wall Street, Trisha Meili, viene aggredita, stuprata e lasciata in fin di vita mentre faceva jogging a Central Park; nella stessa sera un gruppo numeroso di ragazzini di colore si diverte a spaventare i passanti e fare schiamazzi all’interno del parco. Cinque di loro, Antron McCray, Yusef Salaam, Korey Wise, Kevin Richardson (afroamericani) e Raymond Santana (ispanico), vengono accusati di aver perpetrato la violenza, dopo essere stati costretti a dichiarare il falso dalla polizia che voleva trovare in fretta un colpevole. Nonostante la manifesta coercizione delle loro confessioni e la mancanza di qualsiasi tipo di prova fattuale, i cinque vengono condannati e scontano dai 6 ai 13 anni di prigione. Solo nel 2012, dopo che un violentatore seriale confessa anche quella violenza, sono liberati di ogni accusa e ricevono un risarcimento di 41 milioni di dollari.
Non è solo una storia di mala giustizia, è un racconto davvero doloroso di come razzismo, pregiudizi e nervosismo sociale si fondano in un cocktail velenoso servito ai giovani più fragili e marginali della società. è un racconto tagliente e fulminante proprio di questi meccanismi: soprattutto nel primo episodio si vede la drammatica esperienza di questi ragazzini (uno di loro aveva appena 14 anni), che vengono tartassati per ore e ore dai detective pur di ottenere accuse nei confronti di altri ragazzini che neanche conoscevano. Lasciati senza adulti né legali in balia della polizia, gli accusati cedono soprattutto perché sanno che, comunque vada, la loro innocenza non sarà mai riconosciuta e si troverà un modo o un altro per incastrarli.
Tutt’intorno poi si scatena il circo mediatico: esattamente come gli investigatori, i giornali e le televisioni vedono nei cinque ragazzi neri delle vittime troppo ghiotte per non essere demonizzate e sbattute in prima pagina. A poco servono le disperate proteste dei genitori o le manifestazioni antirazziste, il processo si svolge nella bufera di una città che invoca sicurezza e vendetta (e ci finisce in mezzo anche Donald Trump, come si vede qui, che paga 85mila dollari per una paginata sul New York Times in cui invoca la reintroduzione della pena di morte). Anche il racconto processuale di When They See Us, racchiuso soprattutto nel secondo episodio, fonde realismo e assurdità che mettono i brividi: nonostante l’accusa si muova su prove inconsistenti (il ritrovamento di capelli “simili” a quelli della vittima, un calzino con dello sperma di cui non si riesce a ricavare un Dna ecc.), il giudizio è incontrovertibilmente di colpevolezza.
https://youtu.be/u3F9n_smGWY
ASSOLUTAMENTE DA VEDERE
@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder MBA Métissage Boss Academy . & Métissage SangueMisto.