ATTENTION: Per entrare nel mio mood, dovrai leggere questo pezzo ascoltando il martellamento qui sopra 🙂 Non hai scelta! #Enjoy!
Ieri, mentre scrivevo due consigli di lettura sul mio blog per persone miste, mi sono soffermata sulla considerazione che, affrontando certi argomenti (tra le quali quello del meticciato), risulta molto difficile comunicare la propria comprensione e le proprie esperienze in modo chiaro e senza filtri di sorta, anche quando si parla dell’argomento a persone dalle esperienze simili o che sono, esse stesse, bi-multi-culturali. Questo, molto probabilmente, dipende dall’anima, dalla coscienza e dall’interiorità degli interlocutori, e, più in particolare, dallo stato di questi elementi nel momento considerato.
Per una reciproca comprensione, non è sufficiente che chi parla/scrive sappia COME PARLARE/SCRIVERE, ma è anche necessario che chi ascolta sappia COME ASCOLTARE/LEGGERE. La comprensione comune deriva da un’ equilibrio perfetto tra chi espone e chi riceve l’oggetto esposto. Fissare dei punti di riferimento affinché la conversazione risulti efficace, sembra ancora più difficile perché non sempre il proprio interlocutore è sintonizzato su un’apertura mentale vicina alla nostra, e non sempre ha la volontà né lo stimolo ad ascoltare, né l’ispirazione né la rivelazione da poter sostenere un confronto paritario.
Ora…. alla semplice domanda che mi sono posta, nel considerare l’esperienza umana, in generale, ed il meticciato, in particolare, del “Chi sono io?“, non ho dubbi che troverei risposte decisamente imbarazzanti e poco rassicuranti, più per l’incapacità di rispondere, che per altro. Ed allora, di nuovo chiedo: perché succede questo? Evidentemente la risposta sta dentro il fatto che le persone passano il resto della propria vita senza porsi tale domanda, poiché lo ritengono scontato, stupido, o addirittura esotericamente ovvia. O, semplicemente, sono totalmente occupati a fare altro della propria vita, che quesiti di questo calibro sono un intralcio al proprio vivere abitudinario.
Ma …. non lo trovate una cosa assurda? Dedicare zero tempo, conoscenza e attenzione a sé stessi? Cercare di trovare una qualche forma di verità profonda, di arrivare all’essenza delle cose, di penetrare in se stessi, pur brancolando nella pece più nera, ma con la fiducia di riuscire a capire qual è il proprio posto, il senso del mondo che lo circonda e che cosa egli stesso rappresenti in questo lungo peregrinare.
C’è una bella descrizione espressa da Gurdijieff, nel suo libro “Vedute sul mondo reale“, su quello che è la vita di un uomo, in questa dimensione:
Ogni uomo viene al mondo simile a un foglio di carta bianca; ma le circostanze e le persone che gli stanno intorno fanno a gara per imbrattare questo foglio e per ricoprirlo di ogni genere di scritte. Ed ecco intervenire l’educazione, le lezioni di morale, il sapere che chiamiamo conoscenza, tutti i sentimenti di dovere, onore, coscienza ecc. E ogni educatore proclama il carattere immutabile e infallibile dei metodi ch’egli stesso utilizza per innestare questi rami all’albero della ” personalità ” umana. A poco a poco il foglio si macchia, e più è macchiato di pretese “conoscenze “, più l’uomo è considerato intelligente. Più sono numerose le scritte nel posto chiamato “dovere”, più il possessore è considerato onesto; e così via per ogni cosa. Il foglio così sporcato, accorgendosi che le macchie vengono scambiate per meriti, le considera preziose. Ecco un esempio di ciò che chiamiamo “uomo “, cui aggiungiamo spesso delle parole come “talento” e “genio “. Eppure il nostro “genio” vedrà il suo umore guastarsi per tutto il giorno se al mattino, svegliandosi, non trova le pantofole accanto al letto.
L’uomo non è libero, tanto nelle sue manifestazioni che nella vita. Non può essere ciò che vorrebbe essere, e nemmeno ciò che crede di essere. Non somiglia all’immagine che ha di se stesso, e le parole “uomo, corona della creazione” non gli si adattano.
“Uomo”: una parola altisonante, ma dobbiamo chiederci di che tipo di uomo si tratta. Non certo l’uomo che si irrita per delle sciocchezze, che presta attenzione a delle meschinità si lascia coinvolgere da tutto ciò che gli succede intorno. Per avere il diritto di chiamarsi uomo, bisogna essere un uomo, e “essere un uomo ” è possibile soltanto grazie alla conoscenza di sé, e al lavoro su di sé nella direzione indicata da tale conoscenza.
Quindi, tornando a noi …… “Chi sono“? È una domanda che molti di noi si pongono, seriamente, ad un certo punto della propria vita.
Per qualcuno che cresce con molteplici culture, nel mondo di oggi, la domanda comporta il tracciare un percorso di sviluppo personale che rifiuti siano gli altri a definire le proprie identità. Le mie storie, i miei errori e le mie lezioni vanno oltre le etichette e le aspettative della società, tutte mirate a rispondere alla domanda fondamentale: “Chi sono?”/ “Chi sei?”
Ho iniziato a scavare profondamente in cosa significava convivere con più di una cultura quando ero ancora una bambina, stimolata dagli incredibili insegnamenti di mio padre, bianco italiano, e madre, nera nigeriana. Erano insegnamenti di cui non trovavo riscontro con quelli acquisiti dai/dalle compagni/e di gioco, perché così al di sopra della realtà che vivevo; mi sembrava di essere un’eroina, con una sorta di superpotere che gli altri non volevano (e non potevano) convalidare, vedendomi come un alieno arrivata da chissà dove.
Ero così profondamente radicata e istruita sulle complessità, le prospettive e le incongruenze, del mio essere birazziale, che sono cresciuta così fiduciosa e ben addestrata su quali ostacoli avrei incontrato nel mio viaggio in questa dimensione terrestre. E non riuscivo a capacitarmi perché alcuni amici/amiche, i cui genitori erano di etnie diverse, non si vedessero come birazziali o multiculturali.
Mi chiedevo perché nessuno convalidasse le mia doppia identità e le mie esperienze. Tutte le persone miste che conoscevo si identificavano con la loro parte etnica più emarginata ad esclusione di tutti gli altri. Ho avuto diversi amici con un genitore bianco e uno nero e continuavano a dirmi che erano neri, esprimendo, persino, il loro odio per i bianchi. E quando ho cercato di rammentare loro che uno dei loro genitori era bianco, e chiedere loro come fosse possibile rinnegare questo, le risposte datemi sono state così scioccanti, per il momento fanciullesco che vivevo.
Entrambi i miei genitori non si sono mai preoccupati di soccombere alle pressioni della società, né si sono mai preoccupati degli stigmi riguardanti le coppie interrazziali o dell’aver dato alla luce un esseruccio misto marrone. Ma erano ben consapevoli che la società, in quegli anni, educava rigorosamente al senso dell’ingiusto, cosa che li fece decidere, insieme, di instillarmi il senso dell’orgoglio per il mio essere mista, ed essere sempre antagonista, anticonformista, ferocemente indipendente, incrollabilmente onesta e, inderogabilmente, me stessa. Mi hanno sempre detto la verità, disposti com’erano, a non cedere alle pressioni e alle aspettative della cultura di quei tempi, assicurandomi sul fatto che ero sia bianca che nera e che avrei dovuto identificarmi come tale. Anche se i loro amici e familiari continuavano a redarguirli sul fatto che il mondo mi avrebbe visto come solo nera (in Occidente) o solo come bianca (in Africa), hanno, comunque, insistito nell’insegnarmi che non dovevo basare la comprensione del mio essere mista, sulle prospettive degli altri. Mi hanno insegnato a rifiutare, energicamente, di soccombere, sul tema della razza, al concetto della maggioranza; un punto di vista che è stato codificato nella cultura popolare come risultato diretto dell’ideologia razzista della “one-drop-rule” (regola della goccia unica).
L’unica cosa di cui ero veramente sicura, a quel punto, era che i miei genitori mi avevano dato il dono dell’ “amor proprio“, che ho usato per tutta la mia vita, fino ad oggi. Mi è stato insegnato che l’amore include tutti gli aspetti dell’identità di una persona, incondizionato ed abbraccia l’intera persona. Attraverso l’amore ho conosciuto il mio valore e la “razza” è stata il mio punto di riferimento per determinare che sono sempre esistita, comodamente, nell’arcobaleno di colori tra il nero e il bianco.
Onoro e apprezzo la ricca tradizione della narrazione africana, della musica, della cucina e della resilienza di un popolo che ha dimostrato la bellezza dello spirito umano. Allo stesso tempo, onoro e apprezzo anche la cultura, le tradizioni, il patrimonio e la cucina dei miei antenati bianchi, che hanno combattuto l”oppressione e lottato per la democrazia e la liberazione. Essere marroni in un mondo in bianco e nero è normalissimo. Anzi, spesso, mi piace giocare su quale delle mie culture mi giova in un particolare momento. Quando entra in gioco la “sindrome dell’impostore razziale“, che moltissimi (troppi) usano come il prezzemolo in ogni parola, in ogni frase ed in ogni tentativo di ribellione da parte mia, scatta in me la voglia di trascinarli davanti ad uno specchio e chiedere loro COSA in realtà i loro occhi vedono! Perché sia così difficile dare un nome REALE a ciò che SONO e non nascondersi dietro le pieghe del “sono nero” per la paura di affrontare le responsabilità, il peso e la complessità di ciò che determina essere persone bi-multi-culturali. E vi siete mai chiesti perché molte persone miste non scelgano mai di essere bianchi? Perché si sentono sempre e solo neri? Ho cercato di analizzare questo aspetto in due altri miei post intitolati “La negazione della propria bianchitudine” , e “Perché le persone bi-razziali ignorano e tralasciano sempre la loro parte bianca?”, due post che hanno sollevato non poche polemiche e discussioni, ma che, alla fine della fiera, nessuno ha saputo dare una spiegazione plausibile di questa brutta consuetudine. E mi sono trovata costretta ad entrare nelle viscere delle nostre responsabilità di persone bi-multi-razziali.
Essere birazziali, in un contesto societario, significa che i bianchi mettono in dubbio la tua bianchezza quando ti definisci mista; significa che le persone tirano ad indovinare la tua etnia, trasformandolo in un gioco divertente mentre ascolti con relativo disagio; significa dover ascoltare le persone che ti feticizzano; significa sperimentare il colorismo, notare come le persone ti mettono su un piedistallo più alto per essere “di pelle chiara”, ma non abbastanza chiaro per essere bianco; significa essere chiamata “mutt” o “bastarda” , e derisa per essere un ibrido, né carne né pesce; significa pensare di non avere radici ed a causa di questo, essere soggetti a patologie psichiatriche come le crisi d’identità, o un disturbo dissociativo dell’identità; se sei donna, significa essere considerata, automaticamente, spogliarellista di un night club di bassa lega e quindi abbordabile con uno schiocco di dita; se sei uomo, significa classificarti come un ebete, confusionario, capace solo di giocare a basket e fare palestra ad alto livello.
In realtà essere birazziali vuol dire ben altro. Per me, in particolare, significa una miriade di cose, impossibile da trattare in quattro righe di blog, ma posso ridurre i vantaggi in alcuni punti salienti come l’essere doppiamente e culturalmente ricca. Quello che gli altri considerano la mia ambiguità, in realtà, è il mio punto di forza, perché mi permette di mimetizzarmi quasi ovunque, non ho particolari legami con un gruppo specifico, posso scegliere chi voglio essere. Quando uso il termine “birazziale”, utilizzo il significato letterale che va ben oltre l’integrazione stereotipata del bianco e nero. Non sperimento alcuna perdita di identità, ma, anzi, un arricchimento immenso data dalla pluralità e diversità estrema delle mie due culture. Il mio essere birazziale, rispetto a tanti altri che possono passare tranquillamente per bianchi o per neri, a seconda del colore del loro pigmento, è toccato da una sorta di restrizione fenotipica. A maggior ragione, avendo la belle ambrata, i capelli nappy ed un nome e cognome tipicamente veneto, è difficile (non impossibile vista la globalizzazione in atto!!!) per le persone digerirmi come montanara delle Dolomiti, ed è più che normale provocare una sorta di mistero che inevitabilmente porta le persone ad essere inquisitive. Come è normale che un Yoruba o un Igbo sia sviato dal colore della mia carnagione pallidina e dal mio nome e cognome, poco allineato con le tipicità Nigeriane. Ciò non significa che io non abbia la mia identità, che nulla ha a che fare con il tutto bianco o il tutto nero.
Essere birazziali vuole anche dire, tra le altre cose, avere una fluidità culturale eccezionale ed una pletora di pratiche tradizionali e formative. Puoi quasi annoverarti come un mediatore culturale in grado di affascinare una platea per il modo naturale che hai di cambiare codice culturale (sempre se non stai minando la loro percezione di te – e questo è uno dei pericoli e guai che spesso si incontra come persone miste, quello cioè di essere visti come una minaccia all’integrità dell’altro!).
Essere birazziali è come indossare un cappotto. Quando fa troppo caldo, puoi toglierlo, quando la temperatura è troppo fredda, puoi rimetterlo. Quando una cultura non ti sembra giusta, hai la possibilità di aderire all’altra metà. È strepitoso e sta cosa va girare i kabissi a non sapete quante persone. Adoro pensarmi, romanzescamente, come una spia che cambia identità. Posso reinventarmi. Posso scegliere di essere bianco domani, nero oggi o, scegliere di essere mista tutti i giorni. Quando sei birazziale, la scelta è tua. Quello che fai con quella scelta e perché prendi la tua decisione, è tutta un’altra storia.
Ho un’ottima prospettiva sulle mie due culture e questo mi ha permesso di semplificare la mia interazione tra culture diverse in generale. Le persone difficilmente riescono ad accettare questo, ma sono diventata così insensibile a ciò che pensano gli altri sulla mia fortuna, tanto che accendo, tranquillamente ed indistintamente, il mio accento pidgin, la mia pronuncia veneta, la mia enfasi italiana ed il mio modus vivendi tipicamente Igbo. Non è mai un peso. È una progressione, un’evoluzione, una grande rivoluzione in cui ognuno di noi dovrebbe essere identificato, non dal colore, ma dal nostro nome. È amore, non solo inteso come sentimento, ma anche come scelta.
Abbracciare l’intero spettro delle mie identità etniche e razziali ha voluto dire rifiutarmi di partecipare a una serie di dinamiche di potere che creano binari razziali, odio e discriminazione. Invece, scelgo, e ho sempre scelto, di abbracciare, incondizionatamente, e senza scusarmi, tutta la mia identità razziale. Scegliendo l’amor proprio, in ogni ambito della mia vita, mi sono impegnata a non cercare più di essere come gli altri, ma a stare bene con il mio scarso senso dell’orientamento e gli alti e bassi delle mie emozioni. Mi sono sentita a mio agio a esistere nello spettro tra gli estremi.
Non pretendo di capire di cosa hanno bisogno gli altri in termini di amore o identificazione razziale, ma la mia esperienza personale mi ha insegnato che apprezzare tutto di me; ha spalancato la porta a una vita piena di opportunità ed esperienze sorprendenti e variegate. Ho una grande, incrollabile speranza che più persone abbracceranno una comprensione dell’etnicità più inclusiva e meno binaria. Mi sembra che, se tutti potessimo sentirci più a nostro agio, inseriti in un contesto di nero e bianco, saremmo in grado di superare il così tanto odio per noi stessi e gli altri, e andare avanti nell’amore, nell’inclusione e nell’unità.
I libri, indubbiamente, hanno giocato un ruolo fondamentale, (insieme agli insegnamenti impartitemi) nell’esercitare consapevolezza, coscienza sociale, critica e capacità di andare dritta per la mia strada, in un mondo che, sì, sentivo così intimo, ma che fuori di me sembrava rifiutarsi di convalidare ciò che ero. Era così normale sforzarmi a trattare la mia identità come qualcosa al di là del colore della pelle, considerandolo più come una prospettiva, che come un limite. Era normale vedermi come una persona libera di scegliere, con coraggio, un certo distacco ed una buona dose di follia, cosa volevo essere. Una libertà che agli occhi dei più è vista come pura follia, ma che ai miei era la possibilità di vivere le mie passioni intensamente, con grande entusiasmo e ispirazione, con un bagaglio decismanete importante e per nulla ingombrante. Come è diventato normale contare sulla mia libertà interiore, che mi consente di non sentirmi offesa nè sminuita dai futili commenti degli altri nè di cercare continui consensi.
Ho iniziato a esplorare il modo in cui le persone miste affrontavano la domanda “chi sei tu” e formavano le loro identità razziali e ho scoperto che gli individui bi-multi-razziali guardano, quasi sempre, alla loro famiglia e ai parenti come punto di riferimento per cercare di capire chi sono. La maggior parte di loro considera il processo di identità razziale come un viaggio personale.
Ovviamente l’identificazione razziale è molto più complicata. Questa idea che “spetta a me determinare chi sono” non è del tutto accurata, perché è una narrazione molto individualistica e svuota l’identità di qualsiasi contesto. La sensazione di essere bloccati tra due mondi porta automaticamente alla domanda centrale di “Chi sono io?” e la negoziazione dell’identità razziale non dovrebbe mai essere solo un fardello del bambino che cerca risposte. Dovrebbe essere una questione che la famiglia, tutta insieme, cerca di risolvere. Molte persone miste usano anche documenti storici per ricostruire e comprendere le loro identità, per rispondere a domande sulla loro esistenza, per colmare il divario creato dall’odio esistente tra le loro diversità culturali familiari.
Ho anche scoperto che c’è una profonda comprensione, connessione e un forte legame tra le persone bi-multirazziali, raffigurati come abitanti solitari di un mondo unico, fatto solo per loro. Tuttavia, queste relazioni seguono un arco di tensione prevedibile, portandoli a scoprire che sono diversi, nonostante la loro profonda connessione personale.
Fino ad oggi, devo ammettere che solo i libri hanno rappresentato una gamma di possibili esperienze di vita per i personaggi birazziali che hanno risposto al disagio sociale sulla loro identità razziale in modi complessi e credibili. E’ giunto quindi il momento di affiancare ai libri stessi, anche uno spazio esplorativo per le esperienze quotidiane, psicologiche, storiche, antropologiche e filosofiche, dell’essere misti. Ed è per questo che è nato il progetto Métissage Sangue Misto, con il suo Blog, la sua pagina Instagram e Facebook e la sua riservata Lounge Community. Spazi creati per il conforto dell’alterità condivisa, ma anche per vedere cosa ci rende come tutti gli altri, nella nostra diversità. Inoltre, vuole essere un mezzo di sostegno a chi educa, istruisce e cresce le nuova generazione futura di Bi-Multi-Razziali.
@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy , MBA Metissage & Métissage SangueMisto.