Mi trovo ad esternare alcune mie personali riflessioni dopo alcuni episodi che ho trovato incresciosi e che si sono ripetuti nel mio arco temporale. Essermi trovata in grandi discussioni con persone nere che, dinnanzi alle difficoltà di proseguire con argomentazioni valide e tangibili, hanno preferito attaccarmi sul personale accusandomi di “white privilege“, di “you act white” e di “white passing“.
Sul “White Privilege” potrei anche chiudere un occhio, dando loro perfettamente ragione, poiché la tonalità della mia pelle ha innescato una forma di discriminazione e di razzismo “meno razzista” di chi ha la pelle più scura. E’ innegabile: quando hai una carnagione dalla tonalità più chiara del nero, i bianchi ti trattano come l ‘”etnia accettabile”, “uno dei buoni, non come loro“, la migliore versione di donna nera; sei una vetrina dove possono dimostrare che sono imparziali, ma, nello stesso tempo, non sei “troppo lontana” dalla loro zona di comfort bianca. Nella comunità nera, invece, ti considerano “fortunata” (evidente applicazione del cosiddetto colorismo di cui ho ampiamente trattato qui), invidiata, fonte di disagio e malcontento nelle relazioni in generale, perché, secondo la loro intima conclusione, la sfumatura più o meno chiara determina la “salvezza” da ogni forma di discriminazione e razzismo.
Ma se parliamo del “white passing o del “you act white” (mi comporto come i bianchi? Cioè, fatemi capire, essere intelligenti, curiosi verso la vita, tendenzialmente pacifista, meno problematica, in grado di soprassedere verso l’ignoranza dei più idioti, è una prerogativa solo dei bianchi? Wow!!!!! A me la zappa sui piedi dà molto fastidio sapete???) …. beh … un paio di cosette (e forse di più!) le avrei da dire.
C’è un libro che lessi nei primissimi anni della mia pre-adolescenza: “Passing” di Nella Larsen e che ha determinato molta di quella stima e sicurezza che mi porto appresso oggi. Nonostante siano trascorsi tutti questi anni, i suoi contenuti (condizione femminile, la diversità, il razzismo ed il colorismo e, appunto il white passing) sono ancora attuali. E’ un libro che mi sento di consigliare vivamente a tutti i Mixed, perché aiuta a chiarire alcuni punti fondamentali su cui ci abbarbichiamo troppo spesso evitando di guardare in faccia la nostra realtà. Troverete qui un breve riassunto dell’opera della Larsen, giusto per contestualizzare il mio discorso.
La storia è ambientata negli Stati Uniti d’America dell’immediato fine della Prima guerra mondiale ed è incentrata su una coppia di donne che si muovono tra la New York carica di frenesia e quell’Harlem dove si sta mettendo in movimento un fare artistico importante e rappresentativo per la cultura afroamericana. In questa dimensione si ritrovano due amiche che da tempo non si vedevano: Irene Redfiled e Clare Kendry, entrambe dalla pelle chiara, ma con radici afroamericane. Irene è sposata con un medico nero. Il rapporto con il consorte è caratterizzato da quel senso di protezione che le garantisce una vita tranquilla e borghese. Clare invece ha una vita più complessa e piena di misteri e segreti. Uno tra i più eclatanti è il fatto che Clare si faccia passare per bianca, quando in realtà bianca non è. Anzi la donna riesce in questo (il passing del titolo) non solo agli occhi della società che frequenta, ma anche a quelli del marito profondamente razzista.
Irene e Clare cominciano a frequentarsi e a rinsaldare la loro amicizia di tanto tempo prima, ma in certi momenti tra le due si percepisce un sentimento più simile all’attrazione, che va ben oltre l’amicizia e questo spaventa Irene, così impreparata alle attenzioni da parte di Clare da fuggirne appena può e a causa di bugie. La poca trasparenza del fare e nel dire e una serie di ambiguità, determinerà continui scossoni al rapporto fino a che in esso si creeranno crepe insaldabili.
Il romanzo della Larsen, tradotto da Anna Maria Torriglia, per la Sellerio Editore, mette in campo temi molto delicati per quei tempi (siamo negli U.S.A degli anni Venti del Novecento) e cioè all’essere donna e all’avere nel proprio DNA un sangue differente da quello della cultura dominante bianca. Sì, la società americana narrata dall’autrice è quella dove è presente in maniera forte il razzismo verso coloro che, proprio perché hanno un colore della pelle differente, vengono considerati quelli della razza diversa, da tenere lontani e in condizioni di inferiorità. Persone da relegare ai margini della società, sfruttando e cercando di bloccare da subito sul nascere ogni tentativo di ribellione. Irene Redfiled vive in questo mondo, ma la sua è un’esistenza pacata. Diversamente Clare Kendry scuote tutto e tutti grazie al suo fascino, alla bellezza che ha, e a quegli occhi ereditati dal padre e dalla nonna che conquistano il prossimo lasciandolo senza respiro. Clare è decisa in quello che fa e il suo modo di porsi nelle società, ossia il riuscire a farsi accettare dai bianchi (il passing che incontreremo qualche riga sotto), nonostante le sue origini afroamericane, le permetterà di ottenere tutta una serie benefici economici e sociali (stare nei posti e fare cose tipiche dei “bianchi) che ha sempre desiderato, ma che non ha mai avuto.
E qui entra in gioco il tema del passing, una parola non messa lì a caso nel titolo originale del libro dall’autrice. Un termine voluto per fare riferimento a quella capacità di una persona (Clare in questo caso) di riuscire a farsi considerare come membro di una società alla quale lei non appartiene – il mondo dei bianchi –, perché è un contesto culturale diverso da quello delle proprie origini. Vero, Clare nel romanzo inganna e riesce a tenere nascosto il suo segreto pure al marito bianco e razzista, ma il passing/passaggio è ed era in passato fondamentale per chi lo metteva in atto, perché comportava una vera e propria accettazione sociale.
Larsen riuscì a trattare con garbo e intelligenza il tema della condizione della donna di colore (di colore dverso dal bianco!, nella società americana degli anni Venti per il fatto che fu una delle protagoniste del movimento culturale noto come Harlem Renaissance (Rinascimento di Harlem) con il quale, attraverso le diverse modalità espressive dell’arte (pittura, fotografia, scultura, cinema, poesia, letteratura, musica, teatro…), la comunità afroamericana rappresentava la sua vita e il legame con le proprie radici. Inoltre l’autrice riuscì a narrare bene, in questa sua seconda opera letteraria (la prima è Quicksand del 1926), lo stato del passing, perché lei stessa era di sangue misto, nata a Chicago, ma figlia di madre danese e padre afroamericano nato ai Caraibi e per tale ragione ben conosceva i pro e i contro di questa condizione.
Questo libro mi dà l’occasione per trattare, dunque, l’argomento del White Passing, che altro non è quando qualcuno percepisce una persona mixed come una persona bianca, caricandola di maggiori privilegi rispetto ad altri individui nella stessa comunità. La Larsen ha senza dubbio dato priorità alle conseguenze più complicate e incisive del White Passing, cioè ai temi legati sul vivere una vita basata sulle bugie e sugli inganni, all’etica della doppiezza razziale.
Storicamente, soprattutto in America, parecchie persone hanno utilizzato il White passing a proprio vantaggio per questioni di sicurezza e di opportunità (come l’istruzione, il lavoro o l’accesso ai viaggi), che altrimenti venivano loro negate, nonché per sostenere coloro che non aveva spazio per parlare, nella loro comunità. Intere generazioni di madri nere americane dicevano ai loro bambini dall’apparenza bianca, in particolare ai maschi: “se le persone non sanno che sei di colore, non dirglielo” e questo per risparmiare loro la sofferenza che loro stesse hanno patito e per offrire un futuro migliore ai loro figli. Passare il famigerato “brown paper bag test” (“test del sacchetto di carta marrone”), utilizzato dai social clubs all’interno della comunità nera, per discriminare qualsiasi persona più scura di un sacchetto di carta marrone, era uno dei fenomeni più in voga per la salvezza.
Per gli afroamericani dalla pelle chiara, passare per bianchi, durante i periodi di schiavitù, era un mezzo per sfuggire alla schiavitù stessa ed essere liberi, oltre che uno strumento di sopravvivenza. Una volta lasciata la piantagione, gli schiavi in fuga che potevano passare per bianchi, trovarono sicurezza nella loro aspetto fisico chiaro e usavano questa tattica, in modo transitorio, per ottenere, appunto, la libertà. Nel periodo successivo, passare per bianco non era più un mezzo per ottenere la libertà. Da una necessità, divenne un’opzione, uno strumento che ha permesso loro di guadagnare istruzione e un impiego che sarebbero stati loro negati se fossero stati riconosciuti come “persone di colore”. Da allora il termine passaggio è stato ampliato per includere altre etnie e categorie di identità. I gruppi discriminati in Nord America e in Europa possono modificare i loro accenti, le scelte delle parole, il modo di vestire, le abitudini di cura e persino i nomi nel tentativo di sembrare membri di un gruppo di maggioranza o di un gruppo di minoranza privilegiata.
Infatti, nella Germania Nazista, esisteva un modo di applicare questo fenomeno che, ovviamente, eludeva dal colore della pelle. Per gli ebrei, passare per “ariani” o bianchi e non ebrei era un mezzo per sfuggire alla persecuzione. Le persone “visibilmente ebree” potevano provare a modificare il loro aspetto per diventare “ariani”, mentre altri ebrei con caratteristiche più ambigue potevano passare più facilmente all’ideale “ariano”. In questi tentativi di passare per “ariani”, gli ebrei alterarono il loro aspetto tingendosi i capelli di biondo e tentando persino di invertire il processo della circoncisione. Edith Hahn Beer era un’ebrea, passata come “ariana”; è sopravvissuta all’Olocausto vivendo e sposando un ufficiale nazista. Hahn-Beer ha scritto un libro di memorie intitolato: La moglie dell’ufficiale nazista: come una donna ebrea sopravvisse all’Olocausto.
Inoltre, ci sono state persone di discendenza africana, nel corso della storia americana, che hanno usato la loro capacità di passare per bianchi, al fine di salvarsi la pelle o far beneficiare di alcuni privilegi, la più ampia comunità afroamericana. Caso eclatante fu quella di Ellen and William Craft, (che raccontai esaustivamente sul Blog qualche tempo fa), scappati dalla schiavitù con un tranello piuttosto sorprendente, varcando i confini di razza, classe, sesso e abilità fisiche; Ellen, infatti, dalle sembianze bianche, pur essendo mixed, si spacciò per un colono maschio bianco con al suo seguito il marito William, in sembianze del suo servitore personale nero.
O come quello di Walter Francis White, un quadroon dagli occhi azzurri e capelli lisci, ex capo della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), si è unito all’organizzazione come investigatore. Nei suoi primi anni presso l’organizzazione, ha indagato sui linciaggi di uomini neri che sono stati ignorati dalla stampa bianca nazionale, usando il suo aspetto ambiguo per infiltrarsi negli spazi bianchi, facilitare le sue indagini e proteggersi in situazioni di tensione. Sotto la guida di White, la NAACP ha istituito il suo Fondo per la difesa legale , che ha condotto numerose sfide legali alla segregazione e alla privazione del diritto di voto, e ha ottenuto molti successi.
I neri hanno lentamente guadagnato alcuni dei diritti costituzionali di cui sono stati privati durante la schiavitù, e, sebbene questi, non avrebbero garantito la “piena” uguaglianza costituzionale per un altro secolo, gli afroamericani ebbero comunque l’uguaglianza giuridica. L’abolizione della schiavitù non ha certo abolito il razzismo e la supremazia bianca cercava in tutti modi di farsi strada, in parte attraverso l’ascesa dei capitoli del Ku Klux Klan e, successivamente di altri gruppi ribelli. Ecco che i mixed usavano il White Passing per eludere la segregazione.
Oggi, la capacità di spacciarsi per bianchi – di scegliere tra vivere con la propria identità esistente o adottare l’identità razziale dominante – è il privilegio più estremo del colorismo. Non è un’opzione a cui ha accesso la stragrande maggioranza dei neri. In un gruppo etnico in cui “svendersi” o essere uno “zio Tom” sono tabù importanti, sarebbe comprensibile se la discussione sul White Passing, si concentrasse sul supremo egoismo dell’atto. Invece, è, nella sua essenza, l’abbandono del gruppo per migliorare l’individuo. La discussione intra-comunitaria su questo fenomeno tende a evitare la questione della moralità dell’atto. Invece, all’interno della comunità nera, le storie di famiglie che usano spesso il White Passing, sono più controverse e servono ad altri scopi: come un modo per sottolineare l’assurdità della propria “razza”, come un rifiuto della propria nerezza, della propria famiglia e cultura afro, o come esempio dell’accesso di una famiglia ai privilegi del colorismo, o, ancora, come una performance sulla massima trasgressione razziale. Passare per bianco nel 21esimo secolo è spesso visto come un rifiuto della propria nerezza, della propria famiglia e cultura afro.
Frasi come “Non sei nero” o “Parli come un bianco” sono diventate osservazioni di riferimento nei confronti di individui birazziali o di razza mista come un modo per mettere in discussione e ignorare il loro background di Blackness o di POC (Persone di Colore). A giugno, per esempio, la cantante Halsey è stata accusata di non aver mai rivendicato, pubblicamente, il suo lato nero. Non ha esitato a rispondere a queste accuse, riconoscendo, sì, di passare per bianca, ma, riconoscendo anche che, alla fine della giornata, è ancora una donna birazziale che abbraccia la sua Blackness. La Halsey ha rivendicato il fenomeno del White passing, ma ha anche capito che ha il dovere di usare il suo ruolo per elevare le persone nella sua comunità; una comunità che continua ad affrontare, quotidianamente, discriminazioni e razzismo.
Alcuni si chiedono se il White Passing sia ritenuto offensivo. In realtà, è offensivo controllare il modo in cui qualcuno si identifica. E sicuramente non è il compito di nessuno affermare che qualcuno non sia abbastanza nero o che non “sembri” della loro razza o etnia. Nessuno dovrebbe mai prendersi la responsabilità di definire una persona Mixed. Si dovrebbe, invece, avere un dialogo aperto sul razzismo e su cosa possiamo fare tutti per arginare meglio le ingiustizie.
Una precisazione va fatta: White Passing non è White Privilege, anche se, in realtà, uno può includere l’altro. Le persone White Passing sono considerate tali perché contraddicono gli stretti stereotipi razziali perpetuati dai bianchi e, questi confini della bianchezza sono controllati spesso per interesse personale piuttosto che per autentici tentativi di inclusività. Il concetto di White Passing, che è intrinsecamente definito e incentrato sui bianchi, implica che le esperienze di una persona White Passing non siano valide perché rientrano nelle rigide definizioni esterne di “bianchezza”. Inoltre, questa implicazione respinge il patrimonio e la cultura di un individuo esclusivamente a causa del loro aspetto simile al bianco. Il colore della pelle è solo un aspetto della razza e dell’etnia di una persona, che influenza e include la sua classe, le tradizioni culturali e le convinzioni politiche.
Inoltre, gli standard che definiscono la “bianchezza” non si basano esclusivamente sul colore della pelle, ma cambiano invece nel tempo per implicare il potere di alcuni gruppi e la simultanea privazione dei diritti di altri. Ad esempio, prima dell’ 11 settembre, gli iraniani erano generalmente considerati “bianchi” dagli americani bianchi, ma l’aumento dell’ islamofobia ha alterato la percezione sociale e il trattamento degli iraniano-americani. Gli iraniano-americani sono spesso detenuti per “misure di sicurezza extra” negli aeroporti o gli viene impedito di entrare negli Stati Uniti senza un visto di viaggio se hanno visitato l’Iraq negli ultimi cinque anni. Sebbene la definizione di bianchezza sia fluida, ha sempre significato superiorità e privilegio all’interno di un sistema ingiusto progettato per avvantaggiare i suoi “soggiogatori”, a costo innegabile, delle comunità emarginate.
Personalmente ritengo che quest’idea attuale di White Passing sia associata, sempre più spesso, all’idea di maggior prestigio sociale, da qualsiasi angolo la si voglia vedere. Per i bianchi un prestigio dato da una diversità particolarmente allettante e invidiata, per i neri come un’idea socialmente condivisa di “normalità”. La pelle chiara è idealizzata in modo più prominente nelle comunità Black e associata a uno status socioeconomico più elevato, stereotipi razziali meno dannosi e desiderabilità. Ne sono una dimostrazione i prodotti per schiarire la pelle – un’industria da miliardi di dollari – divenuti una merce globale. Passare per bianchi evita, tra le tante cose, di essere profilati in modo razziale, interrogati sulla propria cittadinanza o di dubitare delle proprie abilità di lingua o dello stato di istruzione, oltre che affrontare meno discriminazioni. Attori di spicco mixed come Rashida Jones e Keanu Reeves tendono ad essere White Passing, e ciò permette di ottenere ruoli importanti e multidimensionali.
Vorrei però rammentare che questo tipo di privilegio non è qualcosa che si sceglie. Il privilegio fa parte della propria identità, servito, sul piatto d’argento dalla possibilità di scegliere se mantenere la propria identità o usufruire della carta del Passing Privilege . Ma perché scegliere di essere ciò che non si è? Perché, semplicemente, non accettare la propria identità e esserne consapevoli? Come ha detto Maya Angleou, “Il pregiudizio è un fardello che confonde il passato, minaccia il futuro e rende il presente inaccessibile“, quindi, perché non affrontare la questione a testa alta e con animo libero, senza doversi guardare le spalle ad ogni battito d’ali di farfalla?
Noi Mixed abbiamo qualcosa di valore da offrire che è particolare per la nostra esperienza, poiché navighiamo in uno spazio unico. Possiamo abbracciare le complessità dell’esperienza razziale, interrogarci sulle dinamiche dell’ansia razziale, e, tutti, collettivamente, smantellare i sistemi di supremazia bianca e delle varie forme di discriminazione che produce. Ma dobbiamo farlo dall’onestà delle nostre esperienze vissute, non vivendo una menzogna. Personalmente ho sempre con me le storie e le immagini della mia complessa famiglia birazziale come credenziali del mio passato, sapendo che sono il mio asso nella manica, ogni qualvolta qualcuno mi questionerà sulle mie origini.
Le persone non sono così civilizzate come pensiamo se continuiamo a credere e ad agire in modi che classificano gli altri come inferiori a noi sulla base di osservazioni superficiali. Capisco che questo suona ironico dal momento che il colonialismo è radicato in un sistema dicotomico (superiore vs inferiore), ma l’idea di essere minacciati dagli altri sulla base delle differenze, è barbara di per sé. Continueremo ad auto-sabotare la nostra evoluzione come persone fino a quando non lasceremo andare l’idea che, poiché sei nato da una razza, classe, genere, sessualità diversa o sei diverso in qualsiasi altro modo, sei meno importante di un altro.
L’obiettivo che continuo, incessantemente a perseguire, per me e per gli altri, è vivere una vita come la versione più autentica di me stessa, comunque mi identifichi. È doloroso che alcuni non possano farlo in sicurezza in base al loro aspetto o a chi amano. Dobbiamo fare di meglio, perché contiamo l’uno sull’altro più di quanto pensiamo.
Una domanda, però, ve la voglio fare: possiamo dire che in Italia esista questo fenomeno di White Passing? E se sì, in quali contesti e perché si sceglie di adottarlo? Attendo vostri feedback e commenti.
@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy , MBA Metissage & Métissage SangueMisto.
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