Negli ultimi anni, la controversia sulle trecce e sui capelli intrecciati è diventata un argomento di accese discussioni. Mentre ad alcune persone sembrano solo un’acconciatura, altri sentono che fa parte della loro cultura e tradizione e che avere i capelli intrecciati in uno stile particolare senza appartenere a una certa cultura, sia un esempio di appropriazione culturale.
In effetti, le trecce esistono da migliaia di anni e sono apparse attraverso culture e società più disparate: nessun gruppo di persone può affermare che le trecce appartengano a loro.
Le origini delle trecce.
Le treccine sembrano essere l’acconciatura più antica dell’umanità. Infatti, la Venere di Brassempouy (detta anche “la dama con il cappuccio”) e la Venere di Willendorf sono due statuette risalenti a circa 22.000 anni a.C.; entrambi rappresentano una donna con i capelli intrecciati. Quando osserviamo l’arte preistorica e in particolare le statuette femminili dette “Venere” risalenti al periodo paleolitico gravettiano o perigordiano superiore (tra 29.000 e 22.000 anni fa) e scoperte in Europa, rimaniamo colpiti dalle loro somiglianze con l’Africa. Oggi, la maggior parte dei preistorici si è schierata dalla parte della teoria secondo cui queste figure hanno intrecciato i loro capelli ruvidi. Questo tipo di acconciatura intrecciata si è diffusa dalla Valle del Nilo.
Nubiani, egiziani e gli antichi ebrei adottarono per primi i capelli acconciati con sottili dreadlocks, mentre parte della popolazione nera preferiva radersi i capelli, compresi i sacerdoti egizi e le donne di origine Masai. Altri usavano l’acconciatura detta “afro” o anche il cosiddetto “gradiente” che ricorda l’elmo di Ramses.
Successivamente, questo tipo di acconciatura si sarebbe diffuso in tutto il resto dell’Africa nera. I capelli intrecciati mostravano la casta di chi li indossava, i diversi eventi della vita (matrimonio o lutto) o il rango sociale.
A ovest c’erano i Fulani, Akan, Dogon, Mande, Yoruba, Wolof e Hausa
Al centro c’erano i Mangbetous, Fang, Bamileke e Bantu (di tutta l’Africa) ecc.
A est, i Masai.
Le altre tracce storiche, riguardano le prime grandi civiltà africane come l’antico Egitto, dove l’acconciatura simboleggiava il rango sociale. Uomini e donne indossavano diversi tipi di trecce di capelli: treccine o semplici trecce. Erano spesso ornati con fili d’oro e altre raffinatezze. A quel tempo, i capelli ricevevano cure speciali come olio profumato e fiori di loto. Così, il re protodinastico di Tera-neter, del paese Kemet (antico Egitto), portava i capelli raccolti in trecce. Questo tipo di capelli intrecciati è stato poi osservato in molte caste della popolazione egizio – nubiana (scribi, faraoni, artigiani) e nelle donne.
Nell’età del bronzo e del ferro (1200 – 500 a.C.), molte persone in Asia Minore, Caucaso, Mediterraneo orientale, Nord Africa e Vicino Oriente sono raffigurate nell’arte con capelli o barbe intrecciati. In alcune regioni le trecce erano un mezzo di comunicazione e di stratificazione sociale. Modelli specifici potrebbero determinare a quale tribù apparteneva una persona e anche indicare l’età, lo stato civile, la ricchezza, il potere e la religione di una persona.
Come le trecce sono arrivate in Europa?
Le trecce, in Europa, furono introdotte dai commercianti greci. Ciò avvenne durante il 3500 a.C. in Egitto, dove vennero a conoscenza di questa acconciatura e lo introdussero in altre parti del continente.
Le trecce non sono diventate estremamente popolari tra le persone in Europa fino al recente passato. Tuttavia, sono stati soggetti ad alcune importanti evoluzioni nel tempo e sufficienti per far cambiare il modo in cui si acconciavano ed esprimevano sé stessi. Tuttavia, i modelli di intrecciatura non sono cambiati molto e sono rimasti gli stessi.
Capelli e barbe intrecciati erano raffigurati continuamente nelle scoperte archeologiche dei Vichinghi e facevano parte della propria pratica spirituale nella tradizione dei nativi americani. La società europea medievale promuoveva la modestia ed era socialmente inaccettabile per le donne avere i capelli scoperti e sciolti in pubblico, e quindi li indossavano in trecce spesse e belle che di solito venivano fissate sulla testa per mantenere i copricapi in posizione.
L’importanza dei capelli nella cultura Vichinga
Particolare interesse hanno le acconciature dei Vichinghi per l’accesa discussione che continuamente stimolano sul tema. L’era vichinga si estendeva tra l’VIII e l’XI secolo e gli uomini e le donne vichinghi vengono spesso rappresentati come selvaggi, aggressivi, sporchi e disordinati, che amavano, frequentemente, entrare in guerra.
Sfortunatamente, non esistono molte fonti, che possono dirci come i vichinghi si tenevano i capelli. I ricercatori dell’era vichinga hanno esaminato testi, incisioni e statue antichi, nel tentativo di saperne di più sull’igiene vichinga e sulla vita quotidiana vichinga in generale. Tuttavia, le prove suggeriscono che i norvegesi si prendessero molta cura dei loro capelli. Dai reperti recuperati, gli storici hanno stabilito che l’igiene e la toelettatura erano molto importanti nella società norrena. Alcune delle reliquie più comuni rimaste dall’era vichinga sono strumenti per la toelettatura, inclusi pettini per capelli.
I vichinghi praticavano anche bagni frequenti e si pettinavano almeno una volta al giorno. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che i pettini fossero usati per il controllo di pidocchi e lendini. Eppure questa ipotesi non è confermata; pochi studi microscopici sono stati eseguiti su manufatti vichinghi e gli studi condotti non hanno prodotto risultati conclusivi. Potrebbe essere che ai vichinghi piacesse semplicemente farsi pettinare i capelli.
Louise Kæmpe Henriksen, curatrice del Museo delle navi vichinghe di Roskilde, ha affermato, contraddicendo le leggende, che i vichinghi erano, invece, un popolo pulito, amava tenersi ordine e curarsi i capelli in modo quasi maniacale. Diversi reperti archeologici hanno rivelato pinzette, pettini, detergenti per unghie, detergenti per le orecchie e stuzzicadenti dell’era vichinga. Gli uomini avevano lunghe frange e capelli corti sulla nuca. Più in basso sul collo, la pelle era rasata. Una testa maschile scolpita, tridimensionale, su un carro nel tumulo funerario della nave di Oseberg, in Norvegia, ha mostrato che i capelli dell’uomo erano ben curati ed aveva dei lunghi baffi eleganti e una barba sul mento che arrivava fino ai baffi, ma, apparentemente, non fino al guance. Anche fonti scritte dell’Inghilterra medievale di John of Wallingford hanno sostenuto questo punto di vista. Nella sua cronaca del 1220 – un paio di secoli dopo che i Vichinghi avevano devastato l’Inghilterra – descriveva i Vichinghi come dei rubacuori ben curati:
“Avevano anche conquistato, o pianificato di conquistare, tutte le migliori città del paese e causato molte difficoltà ai cittadini originari del paese, poiché avevano – secondo le usanze del loro paese – l’abitudine di pettinarsi i capelli ogni giorno, di fare il bagno ogni sabato , a cambiarsi spesso d’abito e ad attirare l’attenzione su di sé per mezzo di tanti di questi frivoli capricci. Così assediarono la virtù delle donne sposate e persuasero le figlie anche dei nobili a diventare loro amanti“.
Esiste, però, una fonte che contraddiceva questa propensione alla pulizia, alla cura dei capelli e all’ordine dei Vichinghi. L’ambasciatore arabo IBN Fadlan, che incontrò un gruppo di vichinghi sul Volga, li descrisse come “la più sporca delle creature di Allah“. Gli arabi erano musulmani e provenivano da una cultura in cui le persone avrebbero dovuto fare il bagno prima di ciascuna delle loro cinque preghiere quotidiane, mentre i vichinghi potevano fare il bagno solo una volta alla settimana.
Nella cultura popolare le raffigurazioni dei vichinghi sono spesso rappresentate come alte, con i capelli lunghi, che indossano elmi con le corna e brandiscono asce e spade. Gli aspetti di questa immagine sono veri: i vichinghi avevano i capelli lunghi che di solito erano rossastri o biondi. Eppure la concezione comune che le trecce fossero popolari nella cultura vichinga non è del tutto esatta.
Alcuni vichinghi, in particolare le giovani donne, potrebbero aver indossato le trecce. Tuttavia, le trecce probabilmente non erano l’acconciatura più comune per la maggior parte dei vichinghi. Esaminando statue e testi scoperti dell’era vichinga, sembra che la maggior parte dei guerrieri norvegesi portasse i capelli corti, rendendo le trecce piuttosto insolite.
Altre acconciature esistevano nella cultura norrena. Ad esempio, alcuni uomini vichinghi portavano spesso i capelli all’altezza delle spalle e probabilmente i loro tagli di capelli differivano tra le classi sociali. I capelli corti erano associati alla servitù e alla classe inferiore, i capelli lunghi appartenevano alle classi sociali più elevate sia nelle donne che negli uomini, l’intrecciatura è un modo per gestire i capelli lunghi delle classi sociali più elevate.
Notevoli vichinghi nel corso dei secoli hanno menzionato i capelli nei loro epiteti. Harald Fairhair e Sweyn Forkbeard erano entrambi uomini reali vichinghi, con menzioni dei loro capelli nei loro nomi. Affinché i capelli siano inclusi nei titoli vichinghi, i capelli devono aver avuto un alto grado di importanza nella società norrena. È un dato di fatto che i vichinghi avevano forti convenzioni sociali riguardo alla pulizia e ai capelli stilizzati. Di solito, i vichinghi dovevano avere barbe e capelli puliti e ben curati. Uno è una poesia sulla morte del figlio dell’antico norvegese Odino, in cui affermano che l’unico motivo per cui Odino non è ben curato e lavato quel giorno è che è in lutto, dandoci la nostra comprensione che era consentito solo in quelle circostanze.
Acconciature maschili tra i vichinghi
Nei media contemporanei, i capelli vichinghi sono spesso mostrati come attorcigliati in lunghe trecce o nodi elaborati. Tuttavia, le acconciature vichinghe probabilmente non erano conformi a come le immaginiamo oggi. Le acconciature differivano tra classi e professioni. Un vero guerriero vichingo, uno che esplorò e fece irruzione su navi lunghe vichinghe, probabilmente portava i capelli corti dietro la testa e lunghi davanti, in una specie di cefalo rovesciato. Questo stile sarebbe stato il più conveniente in battaglia, per impedire ai nemici di afferrare i capelli di un vichingo. Inoltre, i vichinghi avrebbero potuto indossare i loro elmi più comodamente tenendo i capelli corti nella parte posteriore.
Per altre professioni nella società nordica, secondo quanto riferito dai studiosi, gli uomini portavano i capelli lunghi, almeno fino alle spalle. Secondo Mary Wilhelmine Williams, un’altra storica della cultura vichinga, gli uomini si spazzolavano indietro i capelli dal viso e li fissavano con una fascia di seta, o talvolta una fascia d’argento o d’oro.
Anche lo sbiancamento era una pratica comune tra i vichinghi. Mentre i vichinghi della Scandinavia settentrionale tendevano ad essere naturalmente biondi, i vichinghi danesi avevano i capelli più scuri e potevano essere rossi o bruni. Quelli dai capelli più scuri usavano un agente sbiancante a base di liscivia per macchiare i capelli e la barba di un colore paglierino più chiaro. Quindi, sebbene gli uomini vichinghi di solito portassero i capelli lunghi – ad eccezione dei guerrieri vichinghi, che probabilmente portavano i capelli molto corti, con la frangia più lunga davanti – le prove fotografiche e testuali che abbiamo oggi non supportano l’idea che i vichinghi maschi indossassero le trecce come una pettinatura comune.
Acconciature femminili tra i vichinghi
Anche se le trecce non erano un’acconciatura vichinga maschile, le trecce venivano occasionalmente indossate dalle donne norrene. Le ragazze non sposate potevano portare i capelli sciolti o intrecciati, a significare il loro status di celibe nella società. Dobbiamo, infatti, suddividere le tipologie di donne in due categorie, quelle sposate e quelle non sposate. Nel corso della storia dell’era vichinga, il valore di una donna dipendeva dal fatto che fosse sposata o meno,
Spesso ci si aspettava che le ragazze single portassero i capelli lunghi e sciolti e di solito li intrecciavano solo per un’occasione speciale o per noia. Le donne sposate, invece, portavano i capelli intrecciati, ma non per una scelta di moda, quanto piuttosto perché erano più comodi. Il motivo per cui i capelli intrecciati erano un’opzione preferita dalle donne sposate è che spesso si coprivano la testa con un berretto. A causa di questo accessorio, le acconciature comuni tra le donne sposate erano strette, con panini (acconciatura con capelli avvolti in una bobine circolare su se stessi) bassi o due trecce strette.
Tuttavia, questa, probabilmente non era una norma sociale consolidata e le donne sposate lo facevano semplicemente per comodità. Ci sono, invece, molti ritratti di donne che portano i capelli sciolti con un berretto sopra.
Secondo la storica Mary Wilhelmine Williams, i loro capelli potrebbero essere stati così lunghi che alcune ragazze infilano le estremità nelle cinture. Intagli recuperati dall’età vichinga rivelano anche che le donne norrene indossavano code di cavallo oltre al panino arrotolato. In effetti, la coda di cavallo era probabilmente un’acconciatura popolare, poiché le raffigurazioni di donne con la coda di cavallo si trovano spesso su pietre vichinghe e pezzi d’oro. Sembra, comunque, che le femmine indossassero le trecce molto più spesso degli uomini.
I capelli come significante sociale
La società vichinga era divisa in diverse classi sociali e l’acconciatura avrebbe potuto essere un indicatore importante per lo status di un vichingo. Abbiamo già visto che i guerrieri vichinghi avrebbero avuto un taglio di capelli distinto, a rovescio, per distinguerli dagli uomini di altre professioni. Anche le donne sposate e le ragazze avevano acconciature diverse. Alcuni ricercatori ipotizzano che le code di cavallo arrotolate avrebbero potuto essere un segno di status sociale per le donne d’élite.
Per mantenere i capelli lunghi e sani, era necessaria una manutenzione costante dei capelli per evitare che si spezzassero o si aggrovigliassero. Le code di cavallo arrotolate richiedono capelli molto lunghi, quindi le donne che le hanno indossate dovevano aver avuto le risorse per prendersene cura.
Vediamo ulteriori prove dell’uso dei capelli come indicatore sociale quando osserviamo i tagli di capelli delle classi inferiori. Gli schiavi che vivevano in Scandinavia, erano noti per avere i capelli tagliati corti. Sia gli schiavi che i maschi mantenevano i capelli più corti dei norvegesi liberi, rendendoli facilmente distinguibili.
Perché pensiamo che i vichinghi si intrecciassero i capelli, più per un motivi ritualistici che per altro?
Che i Vichinghi si intrecciassero i capelli è stato registrato, per la prima volta, dai romani, riguardo ai Celti e ai Britanni. Rilevarono che, in realtà, lo facevano come rituale e secondo convinzioni sociali. Gli anglosassoni in seguito adottarono alcuni stili britannici. Lo stereotipo delle trecce si è confuso con l’appropriazione culturale quando sono state tutte classificate nella sezione delle “tribù barbare”, lasciando l’idea che i Vichinghi si acconciassero i capelli come avevano una volta i Celti e i Britanni.
Separare la realtà dalla finzione
Come vedete c’è una gran bella confusione su questo tema ed è questo a renderlo molto interessante. Queste rappresentazioni moderne dei vichinghi (la serie Netflix Vikings ne è un emblema) li raffigurano spesso, con spire e dreadlocks nei capelli, mentre facevano irruzione sulle coste dell’Inghilterra. In realtà, come abbiamo visto fin qui, pare vinca la teoria che i guerrieri vichinghi portassero i capelli lunghi davanti e corti dietro, in modo che, in battaglia, avrebbero aiutato a tenere gli elmi sulla testa e impedito ai loro nemici di afferrare i capelli. Tra le persone che vivono nella società nordica, le giovani donne avrebbero indossato di più le trecce. Tuttavia, potevano anche scegliere di portare i capelli sciolti e, dalle prove archeologiche, sembra che le code di cavallo fossero l’acconciatura più popolare per le giovani donne.
Pertanto, sebbene le versioni moderne delle acconciature vichinghe siano oggi popolari, gli stili contenenti trecce, sfortunatamente, non sono accurati per l’aspetto dei norvegesi durante l’era vichinga. Proviamo a riflettere su quanto siano distorti gli stereotipi e come possono cambiare il modo in cui pensiamo a un’intera cultura.
L’origine delle trecce Africane
C’è un motivo per cui i capelli sono parte integrante della storia e del patrimonio dei neri. Sebbene complessa, l’evoluzione dei capelli afro e il suo impatto sulla società nel tempo racconta una storia dentro di sé, una storia che la dice lunga sull’esperienza e l’identità dei neri.
Le donne africane hanno iniziato ad usare le trecce per una varietà di scopi, diventando, nel tempo, parte della loro cultura. Nella maggior parte delle tribù africane, usare i capelli intrecciati era un metodo unico disponibile per capire la tribù e identificare le persone. Per lo stesso motivo, è stato possibile scoprire molti diversi tipi di trecce seguite da persone che appartenevano a diverse tribù che esistevano all’interno del paese.
Dalle classiche trecce ai dreadlocks e alle forme afro, molte delle acconciature nere più iconiche si possono trovare in disegni, incisioni e geroglifici dell’antico Egitto. Quando il busto dipinto in arenaria della regina egiziana Nefertiti fu riscoperto nel 1913, la sua bellezza regale, accentuata da un’acconciatura imponente, era innegabile e divenne rapidamente un’icona globale del potere femminile. Spesso usate al posto dei copricapi, le parrucche simboleggiavano il proprio rango ed erano essenziali per i reali egiziani e ricchi, maschi e femmine allo stesso modo. Il 2050 a.C. il sarcofago della principessa Kawit ritrae la principessa mentre si fa pettinare i capelli da una serva durante la colazione. Parrucche come questa erano spesso abbinate a pezzi intrecciati di capelli umani, lana, fibre di palma e altri materiali posti su una spessa calotta cranica. La legge egiziana proibiva a schiavi e servi di indossare parrucche.
Le antiche comunità africane modellavano i loro capelli per qualcosa di più del semplice stile. In tutto il continente, l’acconciatura di una persona potrebbe dirti molto su chi era e da dove veniva. Le trecce e le altre acconciature intricate sono state storicamente indossate, soprattutto dai Yoruba, Mende e Wolof, per indicare lo stato civile, l’età, la religione, identità etnica, la ricchezza e il rango nella società. I capelli erano fondamentalmente un segnale visivo significativo con connotazioni spirituali che comunicavano vitalità, prosperità e fertilità oltre a servire come mezzo per parlare con il Divino che si pensava avesse luogo attraverso i capelli. Per realizzare questi look così elaborati possono volerci ore e ore di lavoro, a volte intere giornate: questi procedimenti venivano anche utilizzati, in passato, per creare un legame con la comunità, la famiglia e gli amici, una tradizione che si tramanda da generazioni.
La persona che intrecciava i capelli, lo faceva sia come servizio per la società sia come gesto rituale, senza ricevere nulla in cambio. Non solo: si pensava che i capelli avessero un significato spirituale e grandissimi poteri. Siccome si trovano nella parte più alta del corpo, le persone pensavano che fossero il tramite utilizzato dalle divinità e dagli spiriti per raggiungere l’anima. Intrecciare i capelli, per esempio nella cultura Yoruba, era una forma d’arte, tramandata dalle donne più anziane della famiglia, e le parrucchiere venivano considerate non solo figure sagge ma anche i membri più degni di rispetto della società, perché creavano un collegamento diretto con il divino a cui mandare messaggi.
Fu solo all’inizio della tratta degli schiavi transatlantica nel 15° secolo – che spogliò il continente dei suoi oggetti di valore, le sue ricche culture e ridusse in schiavitù la sua gente – che i capelli afro, così come i lineamenti neri e il corpo nero sono stati ridicolizzati, disumanizzati e “alterati” rispetto agli standard di bellezza europei. Durante la tratta, circa 12 milioni di uomini, donne e bambini africani furono rapiti e venduti come schiavi. Una delle prime cose che i mercanti di schiavi fecero alle persone catturate fu radere i capelli. Considerata la forte importanza spirituale e culturale dei capelli in Africa, è stato un atto particolarmente disumanizzante, inteso a strappare via il loro legame con le loro culture. Quando i loro capelli sono ricresciuti, non hanno più avuto accesso ai trattamenti a base di erbe, agli oli e ai pettini della loro terra natale. I capelli che un tempo erano motivo di orgoglio ed espressione di identità erano spesso nascosti sotto i panni per coprire trecce ruvide e aggrovigliate e proteggerle dalle ore trascorse a lavorare duramente sotto il sole. Con strumenti e tempo limitati per prendersi cura dei propri capelli, le persone sono diventate creative con ciò che avevano a loro disposizione: facendo affidamento su grasso di pancetta, burro e cherosene come balsami, farina di mais come shampoo secco e strumenti per la cardatura in pile di pecora come pettini.
In poco tempo le trecce, più di una comodità, sono diventate uno strumento salvavita. E così le donne, a cui generalmente veniva concesso di spingersi più lontano rispetto agli uomini, sono diventate responsabili del mappaggio delle vie di fuga. Dato che disegnare o scrivere le indicazioni sarebbe stato troppo rischioso (e anche piuttosto complesso, con un’istruzione scarsa o pressoché nulla), hanno iniziato a “disegnare” delle mappe nelle acconciature, nascondendo all’interno alcuni frammenti d’oro e dei semi per il sostentamento dopo la fuga.
Quanti gradi di appropriazione e ri-appropriazione sono necessari perché un segno perda il suo significato originario, o ne acquisti uno nuovo in un contesto diverso?
Ho trovato molto interessante l’analisi della giornalista e scrittrice Giulia Blasi, autrice di “Manuale per ragazze rivoluzionarie”, che qui riporto in parte.
La questione della cultural appropriation è dibattuta nel mondo anglosassone con una serietà che risulta strana ed esagerata agli occhi degli europei. Gli italiani, in particolare, guardano a queste diatribe con una sorta di strabiliato stupore, chiedendosi se davvero sia possibile accapigliarsi su queste faccende e sul percome si esageri così tanto con il politicamente corretto. Per affrontare questa ampia questione dovremmo uscire dall’ottica europea ed entrare in quella anglosassone, in particolare quella dei paesi che in origine erano colonie e dove i bianchi conquistatori hanno stabilito una forma di supremazia culturale. Una supremazia culturale conquistata con un atto di violenza territoriale da parte dei conquistatori, che arrivano sulle sponde di un continente che considerano terreno vergine, lo trovano occupato, sterminano e ghettizzano i suoi abitanti fino a ridurli a una minoranza culturalmente ininfluente, chiusa nelle riserve. Gli stessi coloni commissionano il rapimento di uomini e donne dalle coste africane per poi venderli come schiavi, costruendo loro intorno una narrazione che mira a stabilirne la sostanziale inferiorità mentale e morale. L’abolizione della schiavitù, poi, non è che decreti un’automatica inclusione degli ex schiavi nella società dei bianchi: la segregazione persiste per oltre un secolo. Gli africani d’America, ora americani a tutti gli effetti, per il governo federale rimangono un popolo a parte fino al Civil Rights Act del 1968.
E così anche in Australia, dove la violenza e la ghettizzazione colpiscono le popolazioni aborigene, che vivono in condizioni di marginalità mai davvero affrontate. In Sudafrica, dove l’apartheid (letteralmente: “separazione” in afrikaans) è stato legge fino al 1994, e le questioni legate all’appartenenza etnica vengono toccate con molta cautela. Lì dove c’è stata conquista, prima o poi arriva anche la rivendicazione dei gruppi etnici sulle cui spalle i coloni bianchi hanno costruito il paese.
È un contesto culturale che qui in Italia, terra di conquistati perenni e conquistatori falliti, ci è difficile comprendere appieno. Al netto dei razzismi, che nei decenni si sono modificati nel bersaglio se non nella sostanza (dai meridionali agli albanesi ai rumeni ai profughi per fame o per guerra), la cultura italiana si fonda interamente sulla contaminazione: arabi, normanni, francesi, austriaci, spagnoli, celti, longobardi, chiunque sia passato sulla Penisola o sia approdato nelle isole circostanti ha lasciato una traccia di cui gli italiani si sono impossessati e che è finita nel calderone della cultura nazionale. Gli stranieri arrivati in Italia vent’anni fa hanno figli che parlano italiano con accento regionale: le seconde generazioni tendono all’assimilazione, all’integrazione, non alla rivendicazione delle origini. Ogni regione ha la sua specificità, ma le aree di confine si contaminano, i pordenonesi parlano dialetto veneto, i ciociari un ibrido di romanesco e abruzzese. L’italiano è meticcio per natura, storia e tradizione, e dovunque vada tende a integrarsi nel tessuto sociale: diventa americano, argentino, canadese. Si tratta, comunque, sempre di migrazioni volontarie: si va in altri paesi, con mezzi leciti o illeciti, per cercare un futuro migliore. Non si viene rapiti, picchiati e venduti come schiavi. Per quanto le condizioni della traversata e della permanenza possano essere dure e umilianti, la speranza di superare le difficoltà e trovare una casa rimane.
In questo contesto diventa difficile per noi capire perché per i ragazzi bianchi americani intrecciarsi i capelli nei cornrows tipici degli afroamericani sia diventato un gesto offensivo, piuttosto che una scelta di stile. Un bianco americano progressista non permetterebbe ai figli di tagliarsi i capelli come i calciatori di serie A: la cresta alla moicana è considerata patrimonio dei nativi americani, e all’interno delle tribù identificava il leader e protettore. Qui da noi identifica Genny Savastano e Nainggolan. La domanda è: se per gli americani è sconsigliato acconciarsi i capelli secondo l’usanza di una popolazione che hanno oppresso e spinto ai limiti dell’estinzione, cosa pensano gli americani quando vengono in Italia e vedono la pettinatura di Balotelli?
Gli italiani si sono lasciati la schiavitù alle spalle qualche millennio fa con la liberazione dei greci che servivano nelle dimore degli antichi romani, trasmettendo contemporaneamente la loro cultura e anche la loro religione: le calzature con i legacci intrecciati alla caviglia sono detti “sandali alla schiava” senza che nessuno alzi la voce per protestare, ma quando la definizione viene tradotta letteralmente da un sito di moda, all’estero si leva un coro di sdegno unanime. Le loro schiave, dopotutto, sono le trisavole di Michelle Obama.
La questione si espande ben oltre le faccende di stile, passa per l’utilizzo – oggettivamente poco rispettoso, nei risultati se non nelle intenzioni – di copricapi piumati e sombrero messicani, e finisce dritta nell’adozione da parte dei bianchi di stilemi artistici di dominio dei neri.
E qui arriviamo al nucleo del problema: fatta salva la legittimità delle rivendicazioni e il diritto di tutti di manifestare fastidio, dolore e offesa, che mondo sarebbe quello di oggi se tutti fossero sempre rimasti dentro i propri binari? È un’operazione ai limiti dell’ucronia, perché andando abbastanza indietro né Pizarro, né Colombo né i vichinghi sarebbero mai partiti per le Americhe. Ma proviamo a immaginarlo: se nella storia della musica e dell’intrattenimento non si fosse verificata qualche forma di contaminazione, che cultura avrebbero avuto gli Stati Uniti da esportare? Se la cultura black non avesse toccato l’universo gay, avremmo mai avuto l’esplosione della disco? Se a un certo punto le culture musicali non si fossero avvicinate, fuse e contaminate, avremmo mai avuto George Gershwin, Benny Goodman, Beyoncé, i Rolling Stones, gli Specials, i Clash, i Police?
Da questo lungo ed illuminante estratto della Blasi, devo aggiungere che la contaminazione è qualcosa di veramente fondamentale per la nostra evoluzione culturale, perché ci permette di sperimentare un’empatia particolarmente arricchente. In realtà assistiamo ad un polverone aizzato intorno a questo fenomeno interpretato, soprattutto dagli Europei, come una manifestazione del senso di colpa dei coloni nei confronti dei colonizzati, nonché della struttura profondamente divisa di molte società che siamo abituati a considerare invece come crocevia di culture. Abbiamo sempre vissuto il melting-pot come qualcosa di lungimirante e inclusivo, dove le diversità venivano rispettate e vissute nella loro unicità. In realtà si sta trasformando in qualcosa di diverso dove le minoranze hanno smesso di cercare l’omologazione, rivendicano la proprietà esclusiva dei loro simboli culturali.
Ma, perché nasce l’accusa di appropriazione culturale?
In definitiva, tornando alle nostre trecce, possiamo concludere che esse sono universali, ma il problema non è nell’arte attuale. Il problema, secondo una grossa fetta di popolazione nera, sta nella discriminazione che le persone di colore hanno dovuto affrontare per essersi pettinati in determinati stili intrecciati, mentre le donne e gli uomini bianchi sono celebrati ed emulati quando abbracciano e rivendicano le stesse identiche acconciature.
A riprova della loro libertà di indossare liberamente le trecce, i bianchi, ogni volta che viene ricordato loro che le trecce non sono causa di appropriazione culturale, sono soliti argomentare con frasi come “i nostri antenati vichinghi avevano le trecce“. Si potrebbe stare qui ad aprire una gran discussione in base a ciò che abbiamo analizzato più su, ma il problema non è propriamente questo. Quando un bianco/a indossa le treccine non pensa di certo “hmm ho avuto questa idea di stile dai miei antenati vichinghi“, bensì cerca di emulare lo stile diffuso dalla cultura nera sulla nostra società.
Le donne e gli uomini di origine africana hanno, generalmente, una struttura dei capelli più crespa, e quindi le trecce sono state utilizzate per proteggere e mantenere forti i capelli. Ma per centinaia di anni è stato detto loro che non erano belli, intelligenti o degni e che la loro cultura non aveva valore. Dopo l’abolizione della schiavitù e l’inizio della segregazione razziale in America, ai neri è stato detto che l’unico modo in cui potevano essere riconosciuti, rispettati e trattati, in modo diverso dai loro antenati ridotti in schiavitù, era adottatore la cultura e gli standard di bellezza europei. Di conseguenza, molte persone di colore hanno iniziato a conformarsi alla cultura occidentale (incluso l’uso di sostanze chimiche aggressive e dannose nei capelli per lisciarli) per ottenere un buon lavoro, essere socialmente accettate ed essere trattate alla pari.
Con il Movimento per i diritti civili, molte persone di colore hanno iniziato ad abbracciare ancora una volta la propria cultura ed il proprio patrimonio. I capelli afro diventano una dichiarazione politica e un simbolo di orgoglio nero, quindi chiamarli “solo un’acconciatura” è profondamente offensivo. Per anni, le acconciature afro sono state criticate e condannate e apprezzate solo dopo che le donne bianche le hanno abbracciate. Queste donne bianche vengono chiamate “pioniere“, “trendy” e “funky” – parole che non sarebbero mai state usate per descrivere una donna di colore che indossava i capelli in un modo simile. Invece sarebbe stata investita da epiteti come “ghetto” o “cricchetto“. Ci sono stati anche casi di uomini e donne di colore che hanno perso il lavoro o sono stati cacciati dalle scuole a causa di pregiudizi negativi e razzismo.
Tutte le minoranze etniche hanno sopportato i loro abiti culturali e tradizionali, le acconciature e gli accessori criticati e derisi dall’Occidente, solo fino a quando le stesse cose sono improvvisamente alla moda e iniziano a spuntare ovunque sulle passerelle e sulle riviste. I festival musicali sono paradisi per l’appropriazione culturale, con tatuaggi all’henné, bindi, copricapi e accessori con piume, trecce e anelli per il naso descritti come “moda da festival” – tutte cose che a un certo punto sono state criticate dall’Occidente, sembrando dire che certi vestiti, accessori e acconciature sono accettabili solo quando si vede una donna bianca che li indossa. Ma queste cose non sono solo “alla moda“: sono parti di certe culture che l’Occidente ha cercato di cancellare per anni, mentre ora tenta di prendersi il merito della loro popolarità improvvisa e del loro fascino estetico.
La moda è in continua evoluzione e le sue influenze provengono da tutto. Le trecce di capelli sono universali e immortali, ma i bianchi dovrebbero essere consapevoli del motivo per cui alcune persone di colore potrebbero sentirsi sensibili nei loro confronti e non fingere di essere gli innovatori di qualcosa che esiste da centinaia di anni e che i loro antenati hanno provato così tanto e desidero opprimere e cancellare.
La cultura non è un tratto della personalità. Le donne nere non possono rimuovere la loro melanina come le donne bianche possono rimuovere la loro abbronzatura e applicarla solo quando vogliono.
Qual è la differenza tra una donna bianca e una donna di colore che indossa le treccine o tra un uomo bianco e un uomo nero che indossa un durag? Niente, tranne che le donne nere sono chiamate “non professionali” , “pacchiane”, sempre arrabbiate e inavvicinabili, per averle indossate, mentre le donne bianche vengono viste come trendsetter e innovative. E lo stesso vale per gli uomini con il durag.
La faccenda non gira nemmeno dall’altra parte, quando si vuol ribattere che anche stirarsi i capelli è appropriazione culturale. I capelli lisci sono genetici: non sono un’acconciatura come le treccine o i cornrows, che hanno un legame storico con una cultura specifica. Quando le donne nere portano i capelli lisci, non si stanno appropriando della “cultura bianca”. Stanno partecipando all’assimilazione culturale per avere la possibilità di essere accettati in una società gestita prevalentemente da bianchi. Chi accusa di appropriazione culturale afferma, con vigore, che se si sente il bisogno di rubare moda e stili dalla cultura nera, come minimo, si dovrebbe dare credito alle donne nere da cui si sta rubando. Lo stesso livello di responsabilità dovrebbe essere mantenuto quando altre comunità minoritarie rubano e si appropriano della cultura nera. Comunque partecipano all’appropriazione culturale, e non è che cambi semplicemente perché entrambi i gruppi sono minoranze. La cultura è storica e la gravità dell’azione non cambia in base a chi partecipa all’appropriazione. Se non fa parte della tua cultura, non c’è motivo per usarlo, dicono.
Personalmente sono dell’idea che si debba guardare oltre, sempre con rispetto e interessata partecipazione al disagio che un nostro qualsiasi comportamento, possa urtare la sensibilità altrui. Secondo me, a tutta questa discussione manca un punto fondamentale. La cultura è ciò che fai oggi, non ciò che facevano i tuoi antenati in passato, pur rispettandone tutti i crismi ed il peso della sofferenza che si portano dietro. La nostra cultura è principalmente determinata da dove e con chi si vive e da una certa influenza del proprio background familiare. Il background familiare potrebbe essere composto da una pluralità di culture e, in un mondo globalizzato come il nostro, vi possono essere culture naturalmente acquisite e la possibilità di essere, inevitabilmente contaminati da un mix di civiltà. L’idea che alle persone dovrebbe essere consentito o meno di indossare un’acconciatura o un indumento, suonare un tipo di musica o produrre uno stile artistico basato sui loro antenati è, per non dire altro, fuorviante e stagnante. E le persone che spingono la narrativa dell’appropriazione culturale tendono a non avere una conoscenza effettiva delle origini degli oggetti che affermano appartengano esclusivamente a loro.
Se le persone avessero fatto solo ciò che facevano i loro antenati, la specie umana non sarebbe progredita come, in realtà, è avvenuto. Vivremmo ancora nell’età della pietra. E senza la diffusione culturale, la nostra vita sarebbe molto più opaca e di qualità inferiore. Io sono per la fluidità culturale, per la condivisione di stati d’animo e di emozioni che passano anche, e soprattutto, nel modo in cui ci poniamo verso gli altri. Gli strumenti che abbiamo a disposizione, oggi sono immensi, e, se indossati o usati con estremo rispetto, trovo sia il modo migliore per dare massima espressione alla nostra personale libertà. Abbiamo tutti il diritto di provare nuove esperienze, che eludano dalla gabbia più o meno dorata in cui siamo cresciuti. E non c’è bisogno di portarsi dietro tutto un immenso bagaglio storico che impedisce di dar libertà al nostro modo di essere, se lo facciamo con consapevolezza e profondo ossequio.
Wizzy!
Biracial, Bicultural, Mixed & Matched with an Italian and Nigerian Heritage. Sono un’imprenditrice seriale, multidimensionale e poliedrica, con molti interessi e innumerevoli passioni. Non sono programmata per fare solo una cosa nella vita. Ho una formazione di Antropologia Biologica, Co-Fondatrice e CVO di DOLOMITES AGGREGATES LINK NIG. LTD, investitrice, ricercatrice freelance di studi, cultura, tradizione e patrimonio africani, e fondatrice di Métissage Sangue Misto, WebMag e Lounge Community riservata. Oltre all’Azienda Mineraria, mi occupo di Consulenza sulla Diversità Culturale e Developmental Mentoring, sviluppando programmi di mentoring one-to-one, tagliati su misura per singoli individui, Istituzioni Scolastiche, Organizzazioni Multiculturali e Aziende.