La storiografia ha a lungo attribuito alla Germania nazista una sorta di primato nella costruzione del paradigma razzista in Europa, concedendo all’Italia sempre e solo un ruolo di gregaria, di imitatrice e di copia sbiadita della vera teoria “scientifica” tedesca. Negli ultimi decenni una serie di studi, immuni dalla visione edulcorata del ruolo che l’Italia ha svolto nella costruzione di un’Europa colonialista e razzista affermatasi nell’immediato dopoguerra nel nostro paese, ha iniziato ad analizzare con maggiore accuratezza e laicità l’enorme mole di documenti che testimoniano il ruolo centrale, sia a livello teorico, scientifico che filosofico svolto dall’Italia nella definizione del pensiero e poi delle pratiche razziste. La scarsezza di ricerche sull’apparato teorico che ha sostenuto con forza la creazione di un pensiero razzista in Italia, nel periodo fascista e ben prima subito dopo l’Unità d’Italia, è la conseguenza della rimozione e della cancellazione messe in atto dalla politica italiana – oggi si direbbe in maniera bipartisan – che ha disegnato quell’immagine che lo storico Del Boca, ormai diversi decenni fa, ha definito con la frase “italiani brava gente” (Del Boca, 2005).
Francesco Cassata, nel suo fondamentale libro dedicato alla rivista fascista “Difesa della razza”, a proposito del primato della definizione di razzismo tra Italia e Germania già negli anni Venti del Novecento, scrive: «Basterebbero forse i numerosi apprezzamenti che Alfred Rosenberg dedica al “Tevere” nel Völkischer Beobachter, almeno a partire dall’aprile del 1926, per non nutrire dubbi sulla profondità e la radicalità del pregiudizio antiebraico presenti negli scritti di Telesio Interlandi, ben prima della ascesa al potere di Hitler» (Cassata, 2008:9).
Ciò che appare particolarmente rilevante e interessante è come quel pensiero, che ha coinvolto un’Italia appena unita, ha riguardato archeologi, antropologi, filosofi, giornalisti, scrittori, biologi, medici e zoologi. Ma occorre dire che ha avuto man forte, e si è potuto affermare con una potenza inaudita, prima di tutto attraverso la costruzione di un immaginario popolare, molto diffuso e ben orchestrato. Oltre ai testi scientifici e di diffusione, le immagini che hanno accompagnato l’affermarsi della filosofia razzista in Italia non devono apparire come soli compendi, come oggetti subalterni al testo, ma sono la base essenziale, l’elemento cardine grazie al quale quel pensiero ha potuto svilupparsi rapidamente, e durare nel tempo, attraverso il costante consenso popolare.
In questo articolo, vorrei quindi analizzare solo un intervento testuale e la prima copertina del 1938 di quel documento essenziale del razzismo del periodo fascista che è la rivista quindicinale “Difesa della razza”, uscita ininterrottamente, appunto, dal 1938 al 1943 e diretta da Telesio Interlandi[2]. In anni recenti si è sviluppata, finalmente anche in Italia, un’approfondita letteratura che sta analizzando questa rivista (Cassata, 2008; Pisanty, 2006) e sono state allestite diverse mostre (La menzogna della razza, 1994) che hanno affrontato la tematica razzista partendo dalle sue pagine, e allargando ad altri strumenti della propaganda fascista. Questo breve contributo vuole iniziare a focalizzare l’attenzione sui legami tra l’estetica proposta dal fascismo e gli elementi grafici della rivista, tra il ruolo attribuito all’arte da Mussolini e dal regime, e l’uso che ne viene fatto nella rivista in ambito razzista, per coglierne la portata comunicativa e per mostrare come molti di questi elementi siano riemersi, e riemergano, nelle iconografie del razzismo in Italia e in Europa, dall’immediato dopoguerra a oggi.
La scelta di partire dall’analisi della prima copertina della “Difesa della Razza” è motivata da due elementi: il primo, che le copertine saranno per la rivista l’oggetto in vista, quello esposto nelle edicole (c’è una famosa foto, riportata all’interno della stessa rivista, che mostra un’edicola completamente tappezzata dalla rivista alla sua prima uscita)[3], l’oggetto che propone un messaggio immediato al popolo, anche a chi non la comprerà e non la leggerà; il secondo motivo, è l’autorialità della grafica della rivista, e delle copertine in particolare, che in minima parte sono realizzate da disegnatori noti, ma che in gran parte sono opera dei GUF, cioè da giovani grafici appartenenti al Gruppo Universitario Fascista[4].
Analizzando le copertine della rivista, ho individuato quattro macro-tematiche, che in gran parte corrispondono anche agli argomenti trattati nella rivista stessa: la definizione di “razza italiana”, intesa come razza pura; il legame con l’antico e con la romanità in maniera particolare; l’“anti-negrismo”; l’“antisemitismo”. In questo articolo, prenderò in considerazione solo alcuni aspetti del primo filone, dedicato appunto alla costruzione di un’idea di razza italiana pura.
Credo sia importante chiarire subito che non si parla di “identità” italiana o di nazione italiana, ma nello specifico di razza: quindi si spiega scientificamente una biologia della razza italiana, evidentemente discendente e parte della razza ariana. Occorre qui fare una breve digressione per spiegare bene il dibattito che si apre tra gli anni Venti e i Trenta, in Germania e in Italia, ma anche negli USA e in Inghilterra, ad esempio, intorno alla definizione di razza, e nello specifico di razza ariana (Capoutot, 2012), in riferimento alle due visioni, l’una che la identifica come originaria dell’area indiana e poi “esportata” in Europa e l’altra come originaria del nord Europa, della Germania in particolare, e poi diffusasi nel mondo (Capoutot, 2012). Un tema tutt’altro che collaterale, tant’è che occuperà un paragrafo importante dello stesso Mein Kampf di Hitler (Hitler, 1932). Il dibattito interno alla stessa “Difesa della razza” rispecchia in maniera chiara l’evolversi delle diverse posizioni di intellettuali, giornalisti, e antropologi in particolare, sull’origine delle razze nel mondo. Non è questa la sede per riportare nel dettaglio le diverse sfumature che la discussione prese negli anni Venti e Trenta (Cassata, 2012), ma vorrei mettere in risalto due punti importanti per questa mia breve riflessione, che privilegia l’aspetto immaginifico visuale e le sue iconografie: la costruzione di una discendenza del genio artistico italiano, come diretta emanazione di una razza superiore, quella ariana nordica, che mantenendosi pura in Italia, diversamente dagli altri popoli del Mediterraneo contaminati dalla razze nere, potrà esprimere il massimo della bellezza nelle arti; l’affermazione di una unità di fondo tra nord e sud Italia, unita da una comune origine razziale, che pur producendo diversi “tipi” fisionomici conserva alcune caratteristiche comuni, come appunto la bellezza, l’intelligenza e l’estro creativo.
Nel n.2 del 1938 della “Difesa della razza”, sotto la rubrica “Scienza”, Guido Landra – che insieme a Lidio Cipriani, anche lui antropologo, determinerà le linee guida teoriche e “scientifiche” del razzismo nel governo Mussolini – pubblica l’articolo Concetti del razzismo italiano. Il testo inizia con la chiara e fondamentale distinzione tra le razze che hanno avuto un’evoluzione positiva e quelle che, a causa delle contaminazioni e meticciati, si sono fermate nella loro evoluzione biologica, e quindi psicologica e intellettuale. «Concetto fondamentale per il razzismo italiano è che esiste una netta distinzione fra il gruppo dei popoli ariani e indoeuropei da una parte e il gruppo dei popoli camito-semitici dall’altra» (Landra, 1938:9). Poco sotto, Landra specifica come l’Italia intera, fin dall’epoca preistorica della civiltà dei metalli, sia stata invasa dagli Arii, e che questo ha segnato per sempre la penisola dal punto di vista razziale, dove le diverse invasioni nel tempo sono state sempre assorbite da quella razza dominante. «Con piena ragione si può quindi parlare oggi di una razza italiana che comprende tutti gli italiani dalle Alpi alla Sicilia» (Landra, 1938:9). Il razzismo italiano serve in primis a creare l’Italia, cioè a costruire un’unità che se culturalmente non si è minimamente affermata fino a quel momento, può essere affermata “scientificamente”, in maniera da costruire poi su questa un’identità nazionale funzionale al potere politico. E qui le immagini del genio italiano entrano a supporto della teoria Landiana: «Se noi così osserviamo una serie di ritratti di grandi italiani, di tutti i tempi e di tutte le regioni, siamo colpiti dalla inconfondibile fisionomia e dalla notevole somiglianza» (Landra, 1938:9).
Sono questi i più puri esponenti delle nostre caratteristiche razziali, figure gigantesche che in tutti i tempi hanno dominato la storia dell’umanità. A uguale risultato si giunge osservando una serie di bellezze femminili immortalate dai nostri massimi artisti (figura 1 e 1bis). «Invano, in una qualsiasi di queste figure, si potrebbe identificare un tipo regionale, esse sono al di sopra di ogni tipo regionale, perché rappresentano l’immagine reale della razza italiana» (Landra, 1938:10). La figura 2, a cui fa riferimento il testo, rappresenta quattro ritratti rispettivamente di Leonardo da Vinci, Vittorio Alfieri, Giuseppe Garibaldi e Vincenzo Bellini, nominati come “uomini di razza italiana” nella didascalia. La scelta appare quanto mai interessante perché un artista visivo inventore e scienziato, uno scrittore, un uomo politico e combattente, e un musicista, sono i rappresentanti dell’italianità. Il genio italico si identifica con tutte le nobili abilità intellettuali e artistiche, ma anche con l’abilità politica. Oggi appare quanto mai singolare, con il senno di poi, pensando che Garibaldi nell’immediato secondo dopoguerra sarà il simbolo del Fronte Democratico Popolare nelle elezioni del 1947, sigla che raccoglie Comunisti e Socialisti, qui assunto dal fascismo a rappresentante della “razza” italiana. L’intento di Landra, e di Interlenghi come direttore della rivista, e per diretta volontà di Mussolini, è quello di perimetrare in maniera chiara un’unità nazionale che fin qui è stata solo sulla carta e che proprio il duce riuscirà a creare costruendo il mito razzista, dunque l’eroe dei due mondi ne è il perfetto rappresentante.
Il secondo riferimento alle figure nell’articolo di Landra cita due opere riprodotte, sotto forma di dettagli di figure femminili, una di Tiziano e l’altra di Botticelli, ambedue indicate in didascalia di nuovo come “donne di razza italiana”. La figura a sinistra è un particolare del volto della Fanciulla con vassoio di frutta, (1555 circa, olio su tela, 102×82 cm, Berlino, Gemäldegalerie) di Tiziano Vecellio, la figura a destra è un dettaglio a mezzo busto tratto dall’opera di Sandro Botticelli Ritratto allegorico di donna (Simonetta Vespucci?) (datato 1445 circa). Le due immagini rappresentano perfettamente l’immaginario femminile italiano: la prima, girata di spalle, guarda con sensualità l’osservatore e metaforizza la bellezza erotica italica, tipicizzata nelle sue fattezze rotonde e turgide; la seconda spruzza il latte da un seno e, nonostante non sia una Vergine Maria, personifica la madre, colei che prosegue la progenie italiana. Non a caso le due figure incorniciano il titolo che parla del razzismo italiano, cioè dell’affermazione di una razza superiore per bellezza e valori. Non si sono messe volutamente le figure intere, perché il messaggio poteva arrivare più diretto usando la “purezza” dei due volti femminili.
Nella pagina seguente, l’articolo di Landa inserisce immagini relative a ebrei, che non sono riprese da opere d’arte, ma appaiono come foto antropologiche, o quasi come foto segnaletiche. Le figure sono “tipi” posti di profilo per acuire i segni fisiognomici definiti come significativi dalla letteratura razzista: il naso adunco, l’espressione arcigna, i capelli crespi, il labro sporgente e così via. Al centro, tra le foto di ebrei, si inseriscono due immagini grafiche tratte da affreschi dell’antico Egitto, con la semplice didascalia “principesse egiziane”. Landra parla dell’Egitto come di una civiltà evoluta della razza camitica, ma sottolinea come le due figure abbiano comunque caratteristiche fisiognomiche nettamente distinguibili da quelle ariane. È interessante notare come gli ebrei sono riprodotti solo come persone, come tipi umani, e non attraverso manufatti culturali o artistici, come a negare una qualsiasi forma possibile di auto-rappresentazione artistica e colta, come invece è stato appena fatto per gli italiani. Per gli Egizi, la cui civiltà ha innegabilmente prodotto opere di valore eccelso, si esautora il valore estetico delle opere, riducendole a elementi grafici di nuovo utili non a definire un valore artistico ma a disegnare il tipo della razza comunque inferiore camitico-semitica.
A fondo pagina Landra inserisce la Venere dei Medici e il San Giorgio di Donatello, con la didascalia che indica questa volta semplicemente titolo e autore, e nel testo attribuisce a queste due figure l’indicazione di tipo ariano nordico, da contrappore a quello degli “orientali”, qui identificati con gli ebrei-camiti. Di nuovo, la scelta delle figure non è né casuale né innocente ma mostra una cura che a mio parere caratterizza tutta la “Difesa della razza”. Una Venere, di nuovo a ribadire la forza della bellezza ariana, e un guerriero giovane per indicare la potenza dell’uomo italiano, per altro scegliendo una statua del periodo in cui Donatello si rifà in maniera molto evidente alla statuaria romana imperiale.
La rivista propone dunque, fin dalle sue prime pagine, una razza italiana, esattamente come la razza germanica per i tedeschi, ambedue razze “elette” e culle delle grandi civiltà del mondo. Una visione totalmente etnocentrica, che allarga all’interno della stessa “madre” Europa la visione di un dominio culturale che non può che diffondersi e civilizzare gli altri, perfetta per giustificare il colonialismo, e che ora fa da premessa a una sorta di colonialismo di “bianchi sui bianchi” che sfocerà nelle conquiste della Seconda Guerra Mondiale.
Questa razza italiana, con radici ben più profonde del semplice nazionalismo, ha come primo punto essenziale la sua non contaminazione. E Landra chiude dicendo che il razzismo italiano non serve tanto a proporre valori di superiorità dell’una sull’altra razza, ma per affermare la necessità di dover respingere con fermezza qualsiasi forma di contaminazione, di “meticciato” che renderebbe impura la razza ariana. Non mi soffermo in questo testo sul tema, ma vorrei accennare al fatto che sia diverse copertine sia molti articoli all’interno della “Difesa della razza” proporranno questa idea del meticciato come sporcatura, come insudiciamento della purezza italiana e ariana, proprio in maniera molto visuale, con una materialità simbolica molto evidente e violenta. Per questo, diverse copertine dei primi anni di pubblicazione saranno dedicate a mostrare l’orrore provocato dalle contaminazioni tra razze, e alle dure sanzioni che il fascismo intende adottare contro chi viola questo sacro principio della separazione. Le immagini proposte sono significative quanto i testi riportati all’interno, ma con in più una estrema capacità di sintesi. Occorre dire, a onor del vero, che diversi lettori nella parte destinata alla corrispondenza con la redazione della rivista, che sarà gestita come un “questionario”, lamentano una difficoltà nel capire le simbologie complesse proposte nelle copertine, tant’è che in un secondo momento se ne trovano accenni di spiegazione all’interno della rivista.
La prima copertina, realizzata nel 1938 da Idalgo Palazzetti del GUF di Perugia, è divenuta nel tempo un vero e proprio simbolo della campagna razzista del fascismo e anche logo della stessa rivista. In questa, si vedono tre volti di profilo: in fondo il profilo della testa del Doriforo di Policleto, al centro una statua caricaturale in terracotta che riproduce il cosiddetto profilo “ebraico” in una terracotta alessandrina del III sec. d.C., e una terza foto di una donna africana di etnia Shilluk, fotografata da Lidio Cipriani (Cassata, 2012: 347).
Tra la testa della statua e le altre due figure si abbatte una spada, tenuta da un braccio “bianco”, che entra in scena senza mostrare il resto del corpo a cui appartiene, che separa nettamente la figura di sfondo dalle altre due figure. L’impugnatura della spada fa pensare a un’arma antica, d’epoca romana, associabile al gladio dei centurioni. La spada entra da sinistra e appare in diagonale, le figure sono poste su un quadrato nero fatto ruotare su se stesso fin quasi a diventare un rombo, utile ad amplificare l’effetto dinamico dell’azione del separare. La mano armata taglia davanti agli occhi dell’osservatore l’immagine, cioè compie un’azione chiara e netta, e anche violenta poiché l’oggetto che attua questa scissione è una lama. La configurazione dell’immagine allude a quell’attivismo nella “difesa” della razza di cui parla il titolo medesimo della rivista, e la politica razzista fascista, che non si limita a teorizzare la conservazione della razza pura ma compie azioni concrete, e invita tutti e vigilare sempre attivamente. Le tre figure rappresentano evidentemente la distinzione tra razze camitico-semitiche e razza ariana, e vengono separate con veemenza a indicare che nessun genere di mescolanza debba essere tollerata. La copertina riporta uno sfondo neutro, scuro, che esalta le figure amplificando visivamente le differenze di “colore”, anche se due sono sculture e una figura riproduce una persona reale fotografata dal vero, ma la differenza cromatica, vedremo, è una caratteristica di tutta la grafica della rivista, che serve a enfatizzare l’effetto di contrasto tra purezza e oscurità. Inoltre, una lama di luce colpisce in maniera diretta il Doriforo e lascia più in ombra gli altri due volti, ancora a sottolineare la purezza dell’uno e la contaminazione delle altre due. La decontestualizzazione totale delle tre figure, che appaiono solo come profili, serve a rendere quel senso di eternità, a dare la sensazione che non si tratta di un evento legato a un tempo, un momento, ma esiste da sempre, come vedremo in alcuni testi all’interno della rivista, dando una valenza ultra-storica al razzismo italiano.
Delle tre, la sola figura che non è una scultura è quella della donna africana, a ribadire che non esiste un’estetica, un’arte, quindi una cultura e quindi una civilizzazione legata a quel continente, che possa essere dunque espressa attraverso un manufatto artistico. All’epoca l’Europa era invasa dalle maschere africane riportate dalle colonie ed esposte nei musei etnografici, che per altro saranno riprodotte in altri momenti all’interno della stessa rivista, ma nella copertina appare una foto antropologica, non a caso di Lidio Cipriani, l’etnografo che sugellerà con le sue foto e i suoi testi il razzismo coloniale “anti-negro”, legato strettamente alle colonie italiane in Africa. Il tipo “nero”, africano, non deve essere identificato con un oggetto culturale, ma solo come oggetto di studio, più vicino a una foto zoologica che non a una riproduzione di un manufatto estetico, che seppure inferiore e ridicolizzabile, esprime comunque un’elaborazione culturale. Non si può non attribuire all’ebraismo una storia culturale, anzi semmai si attribuisce a questa una grande capacità di manipolazione, si sceglie un’immagine che gli stessi ebrei avevano utilizzato per dimostrare la loro esistenza già nei secoli passati, e poi riutilizzata in senso opposto dai tedeschi per disegnare la fisionomia dell’eterno ebreo[5]. La statua di Policleto fa parte della passione per l’antica Grecia[6] che sarà presto messa in secondo piano dalla cultura fascista, mussoliniana in particolare, che darà maggior rilievo alla romanità, ma che in questo momento è funzionale alla visione della nascita e della diffusione della razza ariana pura in Italia, e nella civilissima Grecia, ambedue emanazioni dirette del ceppo originale germanico.
Questa prima immagine resterà in copertina per i primi tre numeri della “Difesa della razza” per poi divenire il logo della stessa rivista, perché rappresenta perfettamente il tema portante della pubblicazione: occorre separare le razze, riconoscere definitivamente la superiorità della razza italiana, produttrice di geni e di una cultura millenaria, sul resto del mondo inferiore biologicamente, psicologicamente e quindi anche culturalmente.
Autrice: Viviana Gravano, storica del’arte contemporanea, per il sito Roots-Routes – Research on visual cultures. , Magazine quadrimestrale indipendente di Cultura Visuale, nata “dall’esigenza di aprire uno spazio di riflessione sul ruolo che svolgono, o potrebbero svolgere, le estetiche contemporanee in relazione a tematiche o contesti di tipo antropologico, rispetto a uno scenario mondiale che ridiscute e problematizza il concetto di coloniale e postcoloniale”.
NOTA di Métissage Sangue Misto
Odio fare copia ed incolla di articoli o pezzi di altri reperibili online, ma questo articolo è decisamente interessante ed esaustivo, oltre ad avermi chiarito alcuni dubbi che mi sono sorti in questi lunghi anni di studio, sul tipo di “razzismo all’italiana”. La ringrazio di vero cuore per aver contribuito ad illuminarci su terminologie usate con grande leggerezza e sulle radici profonde del senso di intolleranza che molti di noi vivono in questo paese. Spero di non aver infranto alcuna regola nel pubblicare integralmente, con tanto di note, il suo pezzo qui nel WebMag. In caso contrario chiedo anticipatamente scusa e provvederò a cancellare immediatamente il suo contributo.
NOTE DELL’AUTRICE
[1] Questo articolo è un breve estratto dell’introduzione al mio libro Iconografia del razzismo in Italia. Dall’Unità d’Italia al fascismo ai giorni nostri, che uscirà entro la primavera del 2020, e va dunque inteso più come un primo spunto di riflessione che non come un saggio concluso e definitivo.
[2] Per un approfondimento sulla figura di Interlandi, che è stata la voce di Mussolini sulla razza per molti anni si rimanda al capitolo L’estremista di regime del già citato volume di Francesco Cassata (Cassata, 2008).
[3] “Difesa della razza”, a.I, n.5, 1938, p.46. La didascalia della foto recita “Ecco come un rivenditore di Trieste {Ignazio Sellitri. via della Pietà 3) ha addobbato la sua edicola, per l’uscita del quarto numero della nostra rivista”.
[4] A questo elemento vorrei dare particolare importanza nel mio libro a cui sto lavorando, perché i GUF sono l’avanguardia estetica giovane a cui il fascismo, e Mussolini in persona, dà una enorme importanza proprio per la diffusione del razzismo di stato. L’intervento di ragazzi universitari creerà una vera e propria lingua colta e creativa in ambito comunicativo fascista a tutti i livelli della propaganda di regime. E non è un caso che le copertine della “Difesa della razza” resteranno per lo più anonime, come a indicare un lavoro collegiale, di gruppo, realizzato dalla “falange” creativa del duce. (Duranti, 2008).
[5] “[…] così come una storia tutta tedesca si cela dietro la terracotta alessandrina del III sec. d.C., proveniente dal Rheinisches Landsmuseum di Treviri: identificata, nel 1931, come caricatura «ebraica» dallo stesso rabbino capo di Treviri, Adolf Altmann, che intendeva così dimostrare l’antica presenza della comunità ebraica locale, la terracotta era stata successivamente strumentalizzata proprio dalla propaganda nazista e presentata come testimonianza antropologica dell’ «eterno Ebreo» e come conferma della contaminazione perpetua ai danni del suolo e del sangue tedeschi” (Cassata, 2012:343)
BIBLIOGRAFIA
Cassata B., «La Difesa della razza». Politica, ideologia e immagini del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008.
Chapoutot J., Le nazisme et l’Antiquitè, Presse Universitaire de France, Paris 2012; trad. it. Chapoutot J., Il nazismo e l’antichità, Einaudi, Torino 2017.
Del Boca A., Italiani brava gente?, Neri Pozza, Milano 2005.
Duranti S., Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti. tra politica e propaganda (1930-1940), Donzelli Editore, Roma 2008.
Hitler A., Mein Kampf, Franz Eher Verlag, München 1932.
Landra G., Concetti del razzismo italiano, in “Difesa della razza”, anno I, n. 2.