Nel 1959, John Howard Griffin, uno scrittore americano bianco, si sottopose a trattamenti medici per cambiare l’aspetto della sua pelle e presentarsi come un uomo di colore diverso dal bianco. In seguito viaggiò attraverso il sud segregato degli Stati Uniti per sperimentare il razzismo sopportato quotidianamente da milioni di neri americani. Questo esperimento di vita senza precedenti ha fornito preziose indicazioni su come il cambiamento del colore della pelle di Griffin abbia innescato comportamenti negativi e razzisti da parte dei suoi concittadini.
Camminando per strada, la nostra attenzione è costantemente e automaticamente attratta dalle altre persone, soprattutto dai loro volti e dal loro aspetto; si tratta di stimoli sociali molto salienti. Inoltre, siamo in grado di prendere decisioni in una frazione di secondo sugli altri: se ci piacciono o meno, se ci fidiamo o meno, se sono simili a noi o meno e, per estensione, se appartengono al nostro stesso gruppo o meno.
Queste decisioni spesso influenzano e in una certa misura condizionano il nostro comportamento nei loro confronti. Ad esempio, tendiamo a fidarci di più delle persone che percepiamo come fisicamente simili a noi. Lo stesso vale per la somiglianza percepita nei tratti della personalità. Sembra che il nostro cervello calcoli costantemente la somiglianza fisica o psicologica percepita tra sé e gli altri per valutare il nostro comportamento.
E se per un momento poteste avere il corpo di un’altra razza, sesso o età rispetto al vostro? Questo vi farebbe percepire le persone di un’altra razza, sesso o età come più simili a voi? Cambierebbe il modo in cui vi sentite o il modo in cui stereotipate i diversi gruppi sociali?
Combinando le illusioni che modificano il modo in cui il nostro cervello rappresenta il nostro corpo, alcuni scienziati sono stati in grado di verificare se un cambiamento del vostro io si tradurrebbe in un cambiamento dei vostri pregiudizi razziali impliciti. Per farlo hanno utilizzato un noto test psicologico sociale, l‘Implicit Association Test o IAT. È stato progettato per misurare la forza dell’associazione tra diverse categorie, come persone bianche o nere e concetti piacevoli o spiacevoli.
Nella procedura tipica dello IAT, la parola “Nero” appare nell’angolo in alto a sinistra dello schermo e la parola “Bianco” nell’angolo in alto a destra. Al centro dello schermo appare un volto “Nero” o “Bianco” e i partecipanti devono ordinare il volto nella categoria appropriata premendo il tasto sinistro o destro. Oltre ai volti, si possono utilizzare anche altri attributi positivi o negativi.
Possiamo misurare la velocità con cui le persone classificano i volti neri quando questi sono abbinati a concetti spiacevoli o piacevoli. Se le persone hanno atteggiamenti impliciti negativi nei confronti delle persone di colore, dovrebbero avere forti associazioni tra concetti spiacevoli e volti neri. Di conseguenza, dovrebbero essere più veloci nel categorizzare i volti neri quando questi sono abbinati a concetti spiacevoli e più lenti quando i volti neri sono abbinati a concetti piacevoli. Possiamo quindi misurare le prestazioni delle persone nello IAT e stimare quanto siano prevenute negativamente o positivamente nei confronti delle persone di colore.
In una serie di studi condotti nel loro laboratorio, hanno utilizzato per la prima volta questo semplice test per misurare i pregiudizi razziali impliciti in ampi campioni di partecipanti adulti bianchi caucasici. Come previsto, hanno mostrato pregiudizi piccoli ma comunque negativi nei confronti delle persone di colore. Successivamente, hanno utilizzato diversi tipi di illusioni corporee per far sperimentare alle persone di avere un corpo di colore scuro. Ad esempio, i partecipanti hanno sperimentato che la loro mano, il loro viso o il loro intero corpo in un ambiente di realtà virtuale era nero.
Una volta sperimentata l’illusione di avere un corpo diverso, hanno riproposto lo stesso test sui pregiudizi impliciti. Per i bianchi a cui è stato fatto credere di avere un corpo nero, i pregiudizi negativi nei confronti delle persone di colore sono diminuiti. In esperimenti simili, gli adulti che hanno avuto la sensazione di avere un corpo da bambino hanno elaborato le informazioni percettive e gli aspetti di se stessi come se fossero più simili a quelli dei bambini.
Una funzione di base che sottende molte delle nostre interazioni sociali è il calcolo della somiglianza fisica o psicologica percepita tra noi e gli altri. Modificando il modo in cui le persone si rappresentano internamente, probabilmente abbiamo permesso loro di percepire gli altri come più simili a loro. Questo, a sua volta, ha portato a una riduzione dei loro pregiudizi impliciti negativi.
In altre parole, l’integrazione di diversi segnali sensoriali può consentire al cervello di aggiornare il proprio modello del corpo e di modificare i propri atteggiamenti nei confronti degli altri.
Spesso formatisi in tenera età, si ritiene che gli atteggiamenti razziali negativi rimangano relativamente stabili per tutta l’età adulta. Pochi studi hanno esaminato se i pregiudizi sociali impliciti possono cambiare. Le prove convergenti che riportiamo dimostrano che possiamo modificare positivamente tali pregiudizi sfruttando il modo in cui il cervello integra le informazioni sensoriali provenienti dal nostro corpo. Questi risultati possono motivare nuove ricerche su come si costruisce l’identità personale e su come si possono modificare i confini tra gruppi e gruppi.
I pregiudizi
Che siano di genere, di religione o di razza, i pregiudizi sono una delle questioni più problematiche nelle società moderne. Avendo una natura recondita e inconsapevole, sono largamente immuni alla manipolazione e vincolano il nostro comportamento, diventando il nucleo della discriminazione sociale.
Ricerche recenti suggeriscono come a livello individuale i pregiudizi razziali non siano un’attitudine stabile e immutabile ma piuttosto un fenomeno sociale che come un’onda talvolta travolge gli individui aggregati in un gruppo e pertanto è passibile di cambiamento ogni qualvolta la persona si trova ad abitare un contesto con norme e condotte sociali differenti. I nostri pregiudizi razziali sono frutto di atteggiamenti radicati in noi in anni e anni di esposizione a opinioni pregiudizievoli della società nella quale viviamo o sono semplici credenze che, sporadicamente e temporaneamente, si attivano e occupano la nostra mente influenzando le nostre valutazioni lasciandoci più esposti e vulnerabili alla discriminazione?
Dato il loro impatto significativo sui problemi di convivenza, quando differenti gruppi umani si trovano a dover co-abitare e ad interagire all’interno dello stesso ambiente, i pregiudizi sono stati oggetto di numerosi studi e teorie volte soprattutto a comprenderne la natura e la stabilità nel corso del tempo.
Cosa si prova a ‘indossare’ il corpo di una persona di etnia diversa? Arriva la “Full Body Illusion”, la realtà virtuale immersiva.
Nelle realtà virtuale si cela un potere straordinario, un potere che può abbattere barriere invisibili e plasmare il nostro modo di percepire il mondo. Con essa aumenta l’illusione di incarnare un corpo diverso. Si chiama “Full Body Illusion”, uno studio pionieristico che ha recentemente gettato nuova luce sul potenziale della realtà virtuale nell’analisi del comportamento umano e nella lotta contro i pregiudizi razziali. Lo studio si intitola “Behavioral and neurophysiological indices of the racial bias modulation after virtual embodiment in other-race body” ed è stato pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica, iScience, da alcuni ricercatori delle Università di Torino e di Milano-Bicocca. La mente brillante dietro questa innovativa indagine è la ricercatrice Maria Pyasik, affiliata all’Università di Torino, che ha collaborato con i professori Lorenzo Pia, della stessa università, e Alice Mado Proverbio, dell’Università di Milano-Bicocca.
Semplificando al massimo, si tratta di questo: con la Realtà Virtuale Immersiva (RVI), quando indossi il casco con il visore, tu ‘entri’ in un’altra realtà. In particolare, attraverso meticolose procedure sperimentali, è stato possibile creare l’illusione della cosiddetta “Full Body Illusion”, ovvero l’esperienza di indossare un corpo virtuale, un avatar, differente da quello reale. Questo processo di “diventare qualcun altro” ha dimostrato di influenzare in modo sostanziale e automatico il comportamento delle persone, portando a cambiamenti significativi negli atteggiamenti, nelle credenze e nelle inclinazioni inconsce, inclusi i pregiudizi.
In una mossa rivoluzionaria, questo studio ha coniugato la tecnologia della Realtà Virtuale Immersiva (RVI) con la misurazione dell’attività cerebrale tramite elettroencefalogramma (EEG) per investigare le basi neurocognitive che sotto-tendono la riduzione dei pregiudizi razziali. I pregiudizi, che possono riguardare diversità di genere, religione o razza, costituiscono una delle problematiche più radicate nelle società moderne. La loro natura nascosta e spesso inconsapevole li rende refrattari alla manipolazione e, di conseguenza, essi svolgono un ruolo preponderante nella promozione della discriminazione sociale.
La ricerca ha mirato a investigare i segnali comportamentali e neurofisiologici associati alla riduzione dei pregiudizi razziali scaturiti dall’identificazione con un corpo di etnia diversa. I partecipanti allo studio hanno ’embodizzato’, cioè indossato un avatar che rappresentava la loro etnia (caucasica) o un gruppo etnico differente (nero) dopo aver partecipato a un compito che aveva lo scopo di misurare i pregiudizi razziali. I risultati hanno mostrato che solo l’identificazione con un avatar di colore aveva un impatto significativo nella riduzione dei pregiudizi razziali negativi. Anche il marker elettrofisiologico dei pregiudizi stessi, rappresentato dall’ Onda N400 nei potenziali evocati registrati dall’EEG, mostrava una diminuzione, seppur non statisticamente significativa.
La dottoressa Maria Pyasik, la mente dietro questa scoperta, ha affermato che questo studio è di fondamentale importanza poiché è il primo a esplorare in profondità i correlati neurocognitivi associati alla riduzione dei pregiudizi razziali attraverso la ‘Full Body Illusion’. Questa ricerca – dice – offre una maggiore comprensione del fenomeno, fornendo basi solide per lo sviluppo di applicazioni di intervento sociale. In un’epoca in cui la Realtà Virtuale sta diventando sempre più accessibile e diffusa, è chiaro quanto possa essere il suo potenziale e il suo valore per la società.
In parole povere, la VR potrebbe essere utilizzata per promuovere l’inclusione sociale. Magari oggi sembra solo una bizzarria. Ma presto potrebbe essere una pratica diffusa. Del resto, anche il cinema venne definito, al suo apparire, “una invenzione senza futuro”. E guardate lì dov’è arrivato.
E in fondo, è proprio il cinema che ci ha insegnato a vivere le emozioni degli altri, a “vivere” accanto al corpo, ai dolori, alle speranze di personaggi diversi da noi, lontani geograficamente e culturalmente. È stato il cinema la prima “realtà virtuale” degli ultimi 125 anni.
E quella immersiva non fa che portarci ancora più all’interno dell’esperienza di essere un altro o altra, e quindi di considerarli più vicino a noi.
Gli sviluppi
Lo studio non si esaurisce qui. Come puntualizza Lorenzo Pia, i prossimi passi saranno la convalida dei dati neurofisiologici, ovvero identificare con maggiore certezza i possibili marker corticali (e non) associati alla riduzione del pregiudizio nei confronti di una diversa etnia a seguito del ‘sentirsi’ in un corpo” diverso dal nostro. Inoltre – conclude il docente – sarebbe importante esaminare a fondo i meccanismi sottesi il pregiudizio analizzandone altri quali quello relativo al genere, all’età o alle credenze religiose. Ciò consentirebbe di immaginare procedure standardizzate e protocolli ad hoc per la riduzione del pregiudizio e la promozione della inclusione sociale. Aggiunge poi Alice Mado Proverbio, ricercatrice dell’Università di Milano-Bicocca: “La tecnica elettrofisiologica, in particolare l’osservazione della N400, è ampiamente utilizzata nelle Neuroscienze Sociali per la misurazione dei pregiudizi, non solo quelli etnici, ma anche quelli legati al sesso e al genere. L’attività bioelettrica riflette la presenza di stereotipi inconsapevoli nella regione cerebrale prefrontale mediale. L’opportunità di sperimentare un corpo virtuale diverso da sé in un ambiente di Realtà Virtuale offre interessanti prospettive per sensibilizzare la società su questioni legate alla disabilità e alla diversità”.
Naturalmente non esiste una cura semplice per il razzismo. Ma insieme alla maggiore accessibilità delle tecnologie di realtà virtuale, questi esperimenti possono essere facilmente trasformati in strumenti educativi coinvolgenti che potrebbero consentire ai partecipanti di sperimentare il mondo dalla prospettiva di qualcuno diverso da loro.
Questa sensazione di essere un’altra persona o un membro di un altro gruppo ci permette di capire che “siamo più simili… di quanto non siamo uguali“, come ha scritto Maya Angelou. Come si possono realizzare questi cambiamenti nella società? Si tratta di una domanda politica fondamentale, che non trova risposta da circa mille anni, ma sperimentare il mondo attraverso il corpo di un altro potrebbe essere un piccolo ma importante passo verso una maggiore integrazione.
RICERCHE & SOURCES:
https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fnbeh.2013.00165/full
https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0010027713000772
https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S1053810013000597
https://www.cell.com/iscience/fulltext/S2589-0042(23)02162-4