Non posso fare a meno di richiamare alla mente, una classica frase che ho sentito per decenni tra le amiche nere, mixed e arabe, di mia madre: “Tutti vogliono essere neri, finché non è il momento di essere neri“. E, a dirla tutta, non avevano poi tutti i torti. Viviamo in un’epoca di appropriazione culturale, indignazione selettiva e ambiguità, che è estremamente pericolosa. Ed è forse giunto il momento per fare definitiva chiarezza in merito.
Nel periodo della mia infanzia (parlo della fine degli anni sessanta) era prassi comune, in tutti i mainstream globali, usare (prevalentemente da artisti di origine non africana) una tradizione recitativa che implicava uno stile di trucco marcato, non realistico, per assumere le sembianze stilizzate e stereotipate (direi, brutalmente, caricature) di una persona dalla pelle scura, di origine africana. Era il cosiddetto fenomeno del Blackface, ma la storia risale ben più in là nel tempo, già a metà dell’800, negli Stati Uniti d’America. Lo scopo di questa pratica spaziava dall’esibire la negritudine per il divertimento degli spettatori bianchi, alla pratica, sempre da parte dei bianchi, di proporre, alimentare e diffondere luoghi comuni e stereotipi sulla comunità afroamericana, che in qualche modo confermano e diffondono la visione che ne hanno i bianchi stessi. Ne sono un esempio gli spettacoli dei “menestrelli” (Minstrel Show), nei quali degli attori – prevalentemente bianchi – interpretavano degli schiavi africani liberati, esibendo tutto il repertorio di luoghi comuni sulle popolazioni autoctone dell’Africa e rappresentando gli schiavi alla stregua di animali da zoo. Queste rappresentazioni caricaturali, che ridicolizzavano gli schiavi e li identificavano con pochi tratti, spesso esagerati o inventati, ebbero un’influenza notevole sul modo in cui vennero considerati gli afroamericani nei decenni successivi. Questi spettacoli giocarono un’influenze particolare nel costruire il mito dell’africano pigro, superstizioso, pavido e buffone, che durò molto a lungo nella cultura popolare americana e che fu riproposto per esempio da molti cartoni animati della prima metà del Novecento.
Le mie primissime esperienze di “Blackface” nascono in Nigeria, quando guardavo basita certe commedie e cartoni animati americane. Ma il clou lo fece una pellicola per il mio proiettore Super 8 (era il nostro modo di vivere l’home cinema), regalatomi da mio padre ed a cui sono tutt’ora affezionata. Si tratta di The Opry House del 1929, il quinto cortometraggio di Topolino, dove ci viene mostrato il personaggio intento a mettere in scena uno spettacolo di Minstrel Show indossando, per la prima volta, dei guanti bianchi. Non so perché (o meglio oggi, con la consapevolezza che ho acquisito nel tempo, mi sono fatta la mia idea!), ma mi impressionava il fatto che il Topo tutto nero, improvvisamente, indossasse un paio di guanti bianchi, per esibirsi sul pianoforte. Era chiaro che la motivazione fosse tecnica, dal momento che era una pellicola in bianco e nero e vi era l’esigenza di spezzare l’abbondanza di tonalità di nero che, inevitabilmente, produceva dei corpi privi di dettagli. Non nascondo, però, che per la mia mente di bambina innocente, qualcosa era troppo simile alle commedie che poi vedevo in televisione, dove attori bianchi si pitturavano la faccia di nero, si disegnavano immensi labbroni bianchi e … guarda caso … indossavano i guanti bianchi di Topolino …. non so … qualcosa mi diceva che prendessero in giro i miei amici, i miei zii, i miei parenti tutti e persino mia madre, che nera, nera, era.
Poi arrivo in Italia e sperimento spettacoli del calibro dei nostri immensi Totò e Ugo nazionale (Tognazzi n.d.r). Indimenticabile, per me, è stato lo shock nel vedere Totò mascherato da ambasciatore di Catonga, con un viso zeppo di pece nera ed un septum da bue sul naso, o il nostro Ugone nazionale (qualche volta insieme anche a Vianello, in altre gags) recitare la parte di “Angeli Negri” con qualche improbabile parlata da selvaggio. A far da cornice tutta la Super Classifica Show delle canzoni Top dell’epoca, dai “Watussi“, nel Continente nero con i suoi altissimi “negri che hanno inventato tanti balli“, agli “Angeli Negri” di Leali, definito, da più di mezzo secolo, il negro bianco della canzone italiana, al “Negro” della mitica Marcella Bella, fino all’intellettualoide per antonomasia Giorgio Gaber, icona del pensiero buono e giusto, che nel ’73, in un suo celebre monologo “Le palline”, recita così: “Noi tutti diciamo un bianco è uguale a un negro. Forse il negro è un po’ più marroncino… Oddio, non sarò mica razzista, eh? Devo stare attento. Sì, meglio dire che un bianco abbronzato è uguale a un negro. Pallido. La parola “diverso” non la si può proprio usare…”.
Insomma, questo per dirvi che arrivo da un’epoca dove la sostanza era fondamentale, più che la forma e che quindi si tende a contestualizzare sempre gli episodi, di qualunque matrice, con tanto buonsenso e attenzione per il rispetto ed i fatti. Ed è nell’educazione rigida che io (ed immagino una buona fetta di quelli della mia generazione) ho imparato a comprendere che la realtà storica, in cui è maturato il Blackface di matrice statunitense, è una realtà dove il razzismo sistemico ha permesso la sua nascita e la sua diffusione, ed è in quel contesto che la pratica acquista un chiaro significato discriminante.
Ovviamente, il razzismo sistemico non è appannaggio degli Stati Uniti, ma rammentiamoci che il razzismo non è mai del tutto omogeneo. Alcuni amano tappare la bocca a qualsiasi tentativo di ragionamento, ma nel fare questo non si accorgono di travalicare quell’elemento semplice che è la capacità di contestualizzare e di ragionare, con relativa serenità, su un fenomeno, che, da qualsiasi angolo la si voglia vedere, è abominevole. Bisogna però, essere onesti. Sempre. Anche dinnanzi a ciò che non si vuole vedere, o per convenienza o per fissazione ideologica. Il razzismo statunitense è nato dallo schiavismo, ed è, sostanzialmente diverso da quello italiano, che ha origine nel passato coloniale e nelle leggi razziali del Ventennio. Comportamenti ugualmente razzisti possono essere alimentati da stereotipi diversi, da condizioni storiche e sociali molto differenti. Poiché ogni pratica nasce in un determinato contesto sociale, storico e geografico che le attribuisce senso, non è automatico che, una volta uscita da esso, conservi lo stesso significato e la stessa leggibilità. Del resto, questo è esattamente il motivo per cui, spesso, quando in Italia e in Europa qualcuno accusa qualcun’altro di Blackface, si sente rispondere che non c’era un intento razzista. Ed ecco perché spiegato lo stupore di una generazione che è cresciuta con il senso di solidarietà e rispetto (sostanza/azione) e non si appiccica alle parole (forma) per dare un senso che non le appartiene. Chi, oggi, non ha nessuna empatia nel combattere le proprie battaglie con questi elementi ben chiari nella mente, si scontrerà sempre con un muro che non è disposto a cedere la propria integrità morale e degli intenti, dinanzi al pressapochismo di chi, con aggressività e violenza, vuole, pretende esige di cambiare l’ordine di fenomeni che, comunque, cambieranno, con o senza il loro arabbattamento.
Fuori dal contesto americano, il carattere offensivo del Blackface perde la sua riconoscibilità immediata. Essa è una pratica con una precisa origine e funzione, che persone dall’altra parte del mondo possono anche ignorare del tutto, e pertanto è difficile sostenere che se queste si dipingono il volto di nero stanno richiamandosi a una pratica che nemmeno conoscono (e la riprova è il fatto che in Italia bisogna spiegare in cosa consista, questa pratica). È riduttivo definire il Blackface come il tingersi la faccia di nero: occorre che questo sia fatto per divertire, e che questo alimenti (coscientemente o meno) stereotipi. Il razzismo ha sempre una radice storica e sociale, oltre che culturale, per cui variando contesto non è detto che esso si riproponga nelle stesse forme. Ovviamente, ed è bene sottolinearlo per non incorrere in polemiche sterili di chi legge questo mio scritto, con il solito pressapochismo ed atteggiamento da maestrina, che ciò che vado asserendo è il vissuto personale di un’epoca che la maggior parte dei #blablabla non ha nemmeno idea di cosa sia, se non leggendo qualche Bignami recuperato in qualche cantina dismessa. E’ bene sottolineare che, qualsiasi fenomeno di derisione e/o dis-rispetto per gli altri (chiunque siano) è da condannare senza “ma e senza se”, ma cerchiamo di avere la mente sufficientemente aperta per contestualizzare ogni fenomeno e consegnarlo alla sua matrice originaria.
Come se non bastasse la vivacità ideologica sull’argomento, nell’era 2.0 si è pensato bene di integrare la discussione con un altro fenomeno. Da una forma di intrattenimento razzista, che persiste attraverso le generazioni, Blackface si è evoluto con la modernità per mantenere la pertinenza, trasformandosi nel 21° secolo nella pratica del Blackfishing, una manipolazione fisica, da parte delle donne bianche, per emulare gli attributi fisici e l’estetica delle donne nere e Mixed, fino a rasentare un realismo perfetto.
Essendo un fenomeno nuovo, il Blackfishing (più comunemente indicato sui social media come “N-–fishing) deve ancora essere studiato attraverso una lente storica, sociologica e antropologica, ma possiamo dire che denota una forma di appropriazione culturale, soprattutto riguardo al corpo femminile nero/Mixed, soprattutto dove c’è la possibilità di ottenere attenzione, visibilità o un guadagno finanziario. Quando l’appropriazione culturale incontra il mondo del web nascono fenomeni come il Blackfishing, un fenomeno che troviamo, la maggior parte delle volte, tra le donne bianche che perseguono l’obiettivo di migliorare il proprio corpo attraverso manipolazioni, come l’esagerata abbronzatura, il riempimento delle labbra, dei glutei (BBL – lifting del sedere alla brasiliano) e dei fianchi, la testurizzazione dei capelli e l’uso di acconciature nere tradizionali come le treccine.
Il termine Blackfishing è stato coniato per la primissima volta dalla giornalista canadese Wanna Thompson, nota anche come @WannasWorld su Twitter, la notte del 6 novembre 2018, dopo aver avviato un thread sulle donne bianche, influencer o meno, che praticavano una sorta di cosplay, imitando le donne nere. Quel tweet ha ricevuto più di 46.000 “Mi piace” e circa 6.300 tweet di citazioni: persone che condivisero ulteriori esempi di donne bianche che ritenevano si fossero appropriate di donne nere e Mixed. L’elenco includeva Jesy Nelson, ma anche nomi importanti della cultura statunitense, tra cui Ariana Grande, Kylie Jenner, Iggy Azalea, Bruno Mars e Kim Kardashian. ll termine è al centro di una polemica sulla bellezza femminile. La parola non ha una vera traduzione in Italiano e, tra i neologismi inglesi che prendono continuamente piede nel mondo del Web, è uno dei più recenti. Nasce dalla fusione tra il termine “black” (nero) e il termine “catfishing” che indica l’attività ingannevole con cui si assume una falsa identità sui social network. La vera polemica nasce con le Instagrammers, Emma Hallberg (Svedese) o Aga Brzostowska (Polacca), che si truccano, vestono e atteggiano in modo molto simile alle ragazze nere. Si scuriscono la pelle con il fondotinta e si pettinano come le donne afro-americane. Il risultato è sorprendente, tanto da ingannare i follower e far scoppiare la diatriba.
La Thompson dice che le donne di colore (diverso dal bianco) sono costantemente bombardate dalla promozione degli standard di bellezza europei nei media, così quando le donne bianche usano il loro privilegio per emulare la nerezza (ma non le conseguenze di essere donne nere!), pensano solo a prendere ciò che, secondo loro, le rendono più attraenti, non considerando che “essere nere” è qualcosa da sposare in toto. Intervistata dalla BBC Women’s Hour, la Thompson ha osservato che alcune donne bianche adottano capelli, vestiti e slang associati alle donne nere “abbastanza da aggrapparsi all’ambiguità razziale senza affrontare completamente le conseguenze dell’essere neri. Questo è un problema soprattutto, quando gli influencer neri vengono “sempre trascurati” dai marchi e, vengono sottopagati rispetto ai loro equivalenti bianchi“. Infine, aggiunge, “invece di apprezzare la cultura nera da bordo campo, c’è questo bisogno di possederla, di parteciparvi senza volere la piena esperienza della nerezza e della discriminazione sistemica che ne deriva“.
Questi fenomeni di Blackfishing hanno alimentato il dibattito sull’appropriazione culturale che si ripresenta ogni qual volta il mondo della moda e degli influencer sfrutta elementi estetici di una cultura minoritaria. Il problema nasce quando queste donne, ignorando le problematiche e la storia coloniale o di schiavitù, della cultura da cui stanno attingendo, ne usano i costumi per aggiungere un tocco esotico al loro stile.
Il Blackfishing, però, va anche oltre. L’uso di un makeup così ingannevole, infatti, ha portato alcuni ad associarlo alle messe in scena caricaturali e razziste praticate nei teatri a fine Ottocento da attori bianchi che ridicolizzavano lo stereotipo dell’uomo di colore (Il fenomeno del Blackface di cui parlavo più in su). Lo spirito, ovviamente, non è lo stesso e queste ragazze si dichiarano ammirate dalla cultura afro-americana e ben lontane da intenti razzisti. Tuttavia, resta il fatto che, anche in questi casi di appropriazione, gli elementi della cultura nera vengono stereotipati e ridotti a semplici stili da sfruttare a seconda della moda del momento. Ecco perché c’è un grande polemica sui social per criticare il Blackfishing. Alcune donne nere e Mixed, hanno ricordato come, da piccole, venissero prese in giro per le loro labbra carnose e per quegli stessi tratti somatici che ora vengono esaltati. Altre hanno sottolineato come la cultura nera venga apprezzata mentre le persone di colore continuano, invece, ad essere discriminate. Altre ancora hanno espresso la frustrazione che provano nel vedere sfruttata con leggerezza la cultura nera da persone a cui basta, poi, un tocco di struccante per tornare alla loro posizione di donne bianche privilegiate.
Il discorso dell’appropriazione culturale è ampio, delicato e pieno di sfaccettature. C’è però un aspetto di questo dibattito che riguarda tutte le donne, a prescindere dalla loro etnia, ed è legato ai modelli di bellezza femminile. I canoni che le donne seguono, infatti, variano da cultura a cultura, ma hanno qualcosa in comune: promuovono un modello ideale spesso quasi impossibile da raggiungere. Il fisico promosso dalle Kardashian, così come quello delle influencer accusate di blackfishing, è curvy e a clessidra e per molte ragazze occidentali rappresenta una novità, un’occasione per sentirsi belle anche senza bisogno di assomigliare allo stereotipo della modella alta, magra e androgina. Quello che avviene è che si sta semplicemente adottando un altro modello ideale di bellezza, appartenente ad una diversa cultura, ma ugualmente stereotipato e irraggiungibile. Così come pochissime ragazze bianche hanno il fisico di Kate Moss, allo stesso modo pochissime ragazze nere assomigliano a Beyoncé e via dicendo. Il tranello è che, nel tentare di liberarsi di un modello irraggiungibile si finisce per adottarne un altro. Per promuovere un modello di bellezza femminile più sano e inclusivo questa logica andrebbe, invece, spezzata. Tuttavia per fare questo il Blackfishing ci insegna che non basta la consapevolezza di come la società detti i canoni di bellezza femminile, ma che è essenziale conoscere e rispettare le diverse culture. La differenza con la semplice appropriazione culturale sta proprio nell’”inganno”, nel “fishing”: chi è accusato di blackfishing solitamente è qualcuno che vuole far credere ai followers di essere afro-discendente o di etnia mista.
Il caso delle Instagrammers Emma Hallberg e Aga Brzostowska, con le feroci polemiche nate per il loro farsi passare per quelle che non sono (cioè Mixed), è lampante: hanno ingannato i loro followers, mettendo in atto, appunto, il Blackfishing: entrambe usano fondotinta di diversi toni più scuri della loro carnagione, fanno contouring (un’avanzata tecnica di makeup che consente di correggere i difetti ed esaltare o modificare certe caratteristiche morfologiche del viso – senza bisturi! – dosando sapientemente luci ed ombre), e trucco che diano un’illusione di caratteristiche fisiche tipiche di persone afro – discendenti ed entrambe hanno adottato stili di abbigliamento e atteggiamenti che culturalmente non hanno niente a che vedere con loro. Ci si interroga sulla legittimità della cosa e se non fosse stato il caso, invece, di usare il proprio privilegio o la propria fama per dare voce a chi non ne ha, e lasciar parlare direttamente le minoranze oppresse, senza avere la pretesa di esprimersi al posto loro o per loro.
Caso clamoroso quello di Rachel Dolezal, una donna attivista bianca che ha passato anni a fingere di essere una donna di colore, presidente della sezione di Spokane (nello stato di Washington), della NAACP, la più grande organizzazione afroamericana degli Usa per i diritti civili. Era finita alla ribalta dopo che i genitori avevano diffuso un certificato di nascita da cui risulterebbe che nelle sue vene non scorresse neanche una goccia di sangue africano. “E’ una questione complessa“, ammise la stessa Rachel, che si batte da anni per i diritti della gente di colore ed ha costruito la sua carriera presentandosi in pubblico e sui documenti ufficiali come discendente degli schiavi. Ma sul certificato di nascita si afferma che la donna è nata da genitori biologici bianchi. I quali hanno consegnato a giornali e tv anche le foto di Rachel da bambina: bionda, pallida e lentigginosa.
Oltre ad essere alla testa della Naacp, la Dolezal insegna studi africani alla Eastern Washington University e i suoi riferimenti alla etnia di appartenenza sono sempre stati ambigui. Tipo: “Veniamo tutti dal continente africano“, che si può interpretare in più modi perché é in Africa che ha avuto origine l’umanità. “Fatto sta che nera non è: i suoi antenati sono tedeschi e cechi con qualche goccia di sangue nativo-americano“, hanno detto Ruthanne e Larry Dolezal, i genitori di Rachel, pur ammettendo che la figlia è cresciuta tra neri quando ha cominciato a frequentare la Howard University, uno storico college per neri, e poi nel corso di un breve matrimonio con un afro-americano. “E’ stato dopo il divorzio nel 2004 che Rachel è cambiata. E’ voluta diventare qualcuno che non è presentandosi come afroamericana o bi-razza. E questo non è vero“, ha detto Ruthanne, accusando la figlia di aver identificato un fratellino nero da loro adottato come figlio. “E’ vero che è mio fratello, ma ora ne ho io la custodia”, ha replicato l’attivista. (Fonte: Ansa)
Ma perché fanno il Blackfishing?
I motivi possono essere dei più disparati. L’adozione di un’altra identità di qualsiasi tipo, inclusa un’identità razziale alternativa, di solito, ha a che fare con una sorta di intensa insoddisfazione per la propria identità attuale. Che si tratti di insicurezza o di disprezzo per sé stessi, uno ritiene che l’altra identità gli procurerà qualcosa che non ha. Probabilmente c’è una sorta di feticismo razziale, in cui il desiderio di una persona di assumere i tratti di un’altra razza deriva dall'”oggettivare l’alterità”. Ridurre una cultura a un tipo è feticismo. Riduci un’intera cultura a qualcosa di cui puoi appropriarti. Colui/Colei che fa Blackfish potrebbe vedere la nerezza come una merce che può adattare a proprio piacimento, mercificandola e questo porta a banalizzarla ed a esaltare aspetti che sono davvero una frazione dell’interezza. Prendiamo, ad esempio, i capelli neri. Secondo un recente sondaggio da parte della Dove, l’80% delle donne nere sente ( se non sottilmente obbligate) il bisogno di cambiare i propri capelli naturali in contesti professionali. Tuttavia, coloro che le emulano, possono passare facilmente e senza discriminazioni tra le trame naturali dei loro capelli e le acconciature tradizionalmente “nere”, riducendo queste acconciature a una tendenza o a una merce, facendo passare (o equiparando) il concetto “Blackness è cool” senza dover affrontare le conseguenze dell’essere Black, come il razzismo e la violenza sistemica.
Con l’aumento della rappresentazione delle persone di colore (diverso dal bianco) nei media e nell’intrattenimento e il successo di musicisti come Rihanna e Beyoncé, è chiaro che si possa pensare di avere un’opportunità di avanzamento sociale o di guadagnarci qualcosa, professionalmente o socialmente, imitandoli. Il pensiero ricorrente è: “Voglio questo lavoro, questi soldi, questa opportunità e questa identità me lo farà ottenere”. È quasi la forma inversa del “passing“, una pratica che risale ai tempi della schiavitù e di Jim Crow, per cui le persone di colore più chiaro cercavano di passare per bianchi per un tornaconto politico e sociale. La differenza tra Blackfishing e Passing, tuttavia, è che il primo era una tattica di sopravvivenza per i neri che vivevano in una cultura razzista.
Il Blackfishing, per i follower sui social media, non riguarda la sopravvivenza o la fuga nella minaccia del terrore razziale, ma riguarda i like sui social media. Qualcosa che serve a vendere ( film, musica, prodotti di bellezza e altro ancora). Ancora più importante è che il Blackfishing può essere fatto senza nessuno degli aspetti negativi che derivano dal vivere come una vera persona di colore. Chi lo applica, lo fa perché sta commercializzando un prodotto da cui può, poi, allontanarsi. Sta creando uno spazio nel mercato che vede l’estetica di Blackness come cool e sfrutta questo aspetto.
In una società sempre più multiculturale, le persone che non sono nere stanno imparando di più sulla disuguaglianza e l’ingiustizia razziale. Sono anche esposti a più colleghi e coetanei che sono neri o Mixed. Il Blackfishing potrebbe essere un modo per gli individui non neri di mostrare la loro preoccupazione e solidarietà, o avere un desiderio di adattarsi o, ancora, un modo per compensare eccessivamente la loro vera identità. In una situazione in cui qualcuno si sente intensamente attaccato o identificato con qualcuno di un’altra razza o cultura, potrebbe appropriarsi di quegli elementi. Potrebbe pensare di farlo per ottenere simpatia o essere visto come di parte di o comprensivo al punto da apprezzare eccessivamente quell’attributo.
Dai bianchi della controcultura degli anni ’60, che indossano abiti afro e dashiki, al boom dello streetwear di oggi, indossare le acconciature e gli abiti tradizionali di un altro gruppo etnico diventa un mezzo per dichiarare affinità o simpatia per quel gruppo, ma senza riconoscerne le implicazioni. L’appropriazione di questi stili è diventata una dichiarazione culturale di dove si stava ideologicamente, era un riconoscimento della bellezza, del potere e del desiderio di piacere. L’impulso a voler esprimere simpatia o solidarietà non è sbagliato, ma il Blackfishing non è il modo per farlo. C’è però, anche da dire che non tutti coloro che praticano il Blackfishing sono consapevoli delle implicazioni culturali di questo atteggiamento e degli stili etnici usati come una tendenza, moda o una merce. Ci si sente piuttosto sicuri di fare tutto ciò che si desidera al proprio corpo, indipendentemente dalle implicazioni, ma dobbiamo capire che non è mai solo uno ‘stile’ e che le implicazioni sono pieni di vera sofferenza. Chi ha il privilegio di fare il Blackfishing, dovrebbe avere la capacità di fermare questa farsa in qualsiasi momento. Hai la libertà (e la possibilità) di evitare questo. I neri non hanno questa libertà. Non possono scegliere e dividere le azioni in compartimenti. Questa è la nozione di privilegio: l’idea di indossarlo come un costume anche se sembra essere un omaggio, ma in realtà è una maschera che opera come una forma di feticismo razziale. Cerchiamo di ricordare come vi sia una specifica dinamica di potere nella società Occidentale, che implica che gli aspetti della cultura razziale devono essere convalidati da coloro che hanno uno status affinché possano essere considerati positivi o di valore.
In cosa differisce dall’appropriazione culturale?
Blackfishing e appropriazione culturale sono tutti interconnessi: non si può avere l’uno senza l’altro. L’appropriazione culturale, è l’atto di prendere o usare cose da una cultura che non è la tua, specialmente senza mostrare di capire o rispettare questa cultura. Le persone con potere e privilegi prendono costumi e tradizioni per cui le persone oppresse sono state a lungo emarginate e le ripropongono come una cosa nuova di zecca, di tendenza, di moda, mostrando di non avere alcun rispetto per la cultura nera. Mercificando e sfruttando il fenomeno, cambiando il loro aspetto con il trucco, con la chirurgia estetica o con l’editing digitale per apparire neri, fanno un passo avanti rispetto all’appropriazione culturale. È magicamente Blackfishing.
Perché il blackfishing è sbagliato?
L’obiezione più comune alle accuse di Blackfishing è che vezzi estetici come le treccine o i capelli afro rimangono, appunto, soltanto scelte estetiche e non hanno nulla a che vedere con l’appropriazione culturale o tantomeno il razzismo. Ma se per persone bianche occidentali e, di conseguenza, privilegiate, scegliere di indossare un durag o di ricreare labbra ultra carnose è, appunto, un puro capriccio estetico, per altri è rabbia, è cultura, è storia. Tantissime sono infatti le persone afro – discendenti che si sentono profondamente offese da influencer bianchi che ostentano caratteristiche e stili che non appartengono loro. Un qualsiasi nero o Mixed può dire: “Perché io ho vissuto ingiustizie proprio per le mie caratteristiche fisiche naturali, mentre gli influencer bianchi sono considerati bellissimi scimmiottando le stesse identiche caratteristiche?”
Questo quesito è sufficiente per farvi comprendere il motivo per cui pratiche come il Blackfishing sono assolutamente problematiche e non portano nessuna riflessione positiva sui social, né omaggiano in alcun modo la cultura delle persone afro – discendenti. Il concetto di Blackfishing non è solo il desiderio di diventare qualcosa che una donna bianca non è. C’è una moltitudine di aspetti e conseguenze che derivano dal fingere di essere nere, qualcosa di cui le donne bianche non sono consapevoli perché non le influenza. Tutti gli aspetti negativi dell’essere una donna di colore ricade solo sulle donne di colore. Tutti vogliono essere neri fino al momento di essere neri, ma essere neri non è una scelta estetica. Essere neri non è qualcosa di comodo. Le donne bianche non possono pensare di andare in giro convinte di essere nere. Sforzarsi di diventare “esotici” perché si crede che la nerezza sia un accessorio, è dannoso per le vere donne nere. Quindi, donne bianche, per favore smettete di fare cosplay di donne nere su Instagram, a meno che, ovviamente, non vogliate portare con voi la loro oppressione.