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Coppia Mista: In che senso?

Sfidare continuamente i confini. Il punto di vista di un ragazzo, figlio di una coppia mista.

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Eccomi qua, tornato a scrivere dopo un “break” post-natalizio poco spensierato. Questi buffi lockdown ad intermittenza di colori non sono stati molto rassicuranti e le good vibes che si percepiscono quando si esce per strada (ironico) sembrano presagire una desiderata svolta (ironico ancora), se non nelle condizioni, per lo meno negli umori.

 

 

In questi tempi d’inerzia, o ci si annoia, o ci si sforza di parlamentare con la materia grigia che, presumibilmente, ognuno di noi dovrebbe possedere (e che purtroppo, negli ultimi tempi, tanti hanno deciso di congedare per agevolare una leggera ed accondiscendente ricezione delle quotidiane escalation di notizie trasmesse in tv).

 

 

 

Si può cogliere questa occasione per fare cose interessanti, cose che magari non si erano  intraprese per la “frequentissima” mancanza di tempo, cose come scrivere, cimentarsi in nuove attività, reinventarsi in qualche business, leggere libri o andare in paranoia. Io, per esempio, tutte queste che ho appena elencato le ho intraprese tutte, in particolare l’ultima, dedicandomici con costanza.

 

 

Sono del segno del leone, e confermo quello che l’astrologia ha da dire sulla mia personalità: sono propenso ad intraprendere viaggi (anche molto improbabili), sia fisici che mentali. E così, impossibilitato dall’uscire dal mio Comune, ho viaggiato nella mente per scenari lontani, a volte molto spaventosi, per l’appunto paranoici, ma tante altre anche molto quieti, piacevoli e addirittura quasi metafisici. Tra una meta e l’altra, mi sono anche riscoperto un ricercatore, o una specie di investigatore. Ripensando al mio passato, mi sono interrogato su tante cose che in quel momento non erano quadrate, anche cose molto strane, alle quali talvolta non si è mai riusciti a dare una spiegazione e che per non cadere in preda ai tormenti, si decide di archiviare. Cosi ho dato una rispolverata ai miei archivi e devo dire che da lì ho potuto riesumare del materiale interessante.

 

 

Premetto anticipatamente ai lettori che in questo articolo vorrei portare alla luce un sospetto che si è venuto a conformare nel tempo e che mi è recentemente balzato all’attenzione in seguito ad una di queste mie personali indagini da quarantena. Nel farlo però, dovrò ripercorrere una sequela di pensieri e riflessioni che mi hanno fatto arrivare ad elaborare questa interessante questione, e quindi mi ci vorrà un po’ per raggiungere il punto.

 

 

Sono dell’annata del 96 e dicono che questa sia stata un’annata emblematica perché,  chiude la fila delle “generazioni analogiche”, facendo da separatrice per quelle generazioni che da lì in poi vennero considerate “digitali”. Forse siamo gli ultimi di quelli che andavano a suonare i citofoni del paese per sapere chi fosse disponibile tra i coetanei per una partita lampo a calcetto, ma potrei sbagliarmi.

 

Crebbi in un piccolo paesello della provincia di Milano e, per la highway to la mia pubertà, s’infranse contro di me quell’ondata di tutti i cambiamenti 2.0 che caratterizzarono i primi anni del 21esimo secolo.

 

Perso in questo viaggio nel passato (questo fa parte dell’indagine), mi resi conto di quanto le cose possano cambiare senza nemmeno accorgersene, e senza allontanarci più di tanto, basti pensare al nostro recente e a come le mascherine siano diventate il nuovo “ordinary”. Almeno, io,  personalmente non sono riuscito a percepire, nella sua lenta gradualità, il passaggio esatto in cui il mio cervello  iniziò a riconoscere questa nuova “aggiunta” nel vestiario come un fattore abituale. E pensare che se nel 2017 mi fossi tele-trasportato in questo futuro/presente, probabilmente avrei pensato di  essere capitato nel set di un film fantascientifico in una cornice apocalittica.

 

Ora, per sterzare un po’ verso la direzione mirata, azzarderei a speculare sulle sensazioni di chi, vicino alla mia generazione, condivide caratteristiche fisiche simili alle mie, o più genericamente, di chi condivide l’appartenenza ad un “parentado” multi/bi-razziale, oppure chiunque sia collegato in qualche modo ad entrambe le cose. [Quindi, per chi non l’avesse capito, sono mulatto]. E cioè, che la percezione di tutto ciò che potremmo includere nel mondo del meticciato sia cambiata di non poco, apparentemente in positivo (ma sicuramente con questo non vorrei far intendere di misconoscere il fatto che la strada da percorrere sia ancora molto lunga).

 

 

Forse la globalizzante rivoluzione digitale a cui abbiamo assistito in questi anni (quindi durante la nostra fase adolescenziale per chi è vicino alla mia età) ha offerto un po’ a tutto il mondo, sia occidentale che non, la possibilità di assimilare e comprendere maggiormente questo fenomeno. Sarà forse dovuto anche un po’ alla rappresentazione e all’influenza apportata dai tanti idoli giovanili bi-racial che ora spiccano tra le celebrità più notorie dello spettacolo, della musica e dello sport, ma, ammettiamolo … ora, in diversi ambienti, l’essere bi-razziali è diventata una cosa molto apprezzata, e se non è così per altri contesti, per lo meno, molte più persone rispetto a prima sono a conoscenza (sul piano esteriore) di cosa possa implicare esserlo (e cioè, avere un genitore di un “colore” e l’altro di un “colore” diverso).

 

 

Perché, quando ero piccolo io, sembrava che questa cosa non fosse molto chiara e scontata ……..

 

Quando ero piccolo io (e per piccolo intendo quel periodo che va dall’asilo sino alle medie) avevo la sensazione di essere l’unica creatura vivente sulla Terra della “mia specie”. Mia mamma è stata forse una delle prime persone nere ad aver preso la residenza nel paesino dove sono cresciuto (ai tempi non ne avevo viste altre), quindi, di conseguenza, io ero uno dei rarissimi casi di “bambino marrone” nei paraggi.

 

 

Già alle elementari si iniziava a vederne altri, però appresi fin da subito che questi bambini erano marroni tanto quanto i loro genitori. Io ero marrone ma, comunque, un marrone molto diverso da quello di mia madre e per quanto riguardava mio padre, il margine di comparazione pareva essere più artificioso.

 

 

Purtroppo la società dei tempi e dei luoghi a cui appartenevo non sapeva informarmi a sufficienza per elucidare le mie perplessità, così dovetti far affidamento al mio cervello e le sue funzioni cognitive, osservando e comparando, per poi provare a tirare le conclusioni. Non mi ci volle chissà quale insegnamento avanzato da parte delle maestre per capire che, mischiando il bianco col nero, si ottiene il grigio, e per associatività del processo, mischiando il colore di mio padre con quello di mia madre si ottiene il mio colore.

 

 

Colore che notai fin da subito che differiva dal colore degli altri bambini marroni, ed osservandoli più attentamente, compresi ulteriormente che le tonalità di e tra questi bambini (compreso me) differiva in egual maniera per le tonalità dei bambini “rosa”, e questo non valeva soltanto per il colore della pelle … erano palesi le differenze anche per i capelli, i lineamenti e le espressioni.

 

 

Già a mio vedere (da bambino), tra marroni (per quei pochi che c’erano) eravamo molto diversi, ma a quanto pare non lo eravamo al vedere dei bambini rosa … e finché erano bambini ci poteva stare, ma poi una volta cresciuti sembrava che non si facessero grandi progressi nella capacità di osservazione.

 

All ethnicities

Eravamo tutti neri … ma pareva si intendesse un nero tipo, quasi nazionale, e per nazionale intendo come se esistesse l’Italia, popolata da persone rosa e ben differenti tra loro, che è dentro l’Europa, che è sempre popolata da tizi rosa e ben differenti tra loro, e che fuori da esse ci fosse un macro-continente/nazione separato denominato “Nerolandia” che è popolato da neri, tutti uguali tra loro.
Potevi essere di origini marocchine, boliviane, pakistane, afghane, togolesi, ecuadoriane (e potete immaginare le differenze fisiche e culturali tra questi popoli) ed eri a prescindere appartenente alla grande nazione dei Neri, quindi senza distinzioni fisiche e culturali, il nero era, di per sé, LA connotazione fisica e culturale. Bangladesh e Nigeria potevano soltanto essere delle provincie di “Nerolandia”, quindi pareva ovvio che bangladini e nigeriani condividevano simili usanze e simili costumi …

 

 

[In verità ci sarebbe da precisare che i macro-continenti al di fuori dell’Europa erano 2: Nerolandia e la Cina, quest’ultima popolata da quelli con gli occhi a mandorla, i cosiddetti “gialli”, che automaticamente diventano tutti cinesi e cioè: fiippini = cinesi; indonesiani = cinesi; koreani = cinesi, e così via…]

 

 

Quindi io ero Nero, Nero come poteva esserlo un Sudenese Dinka, le differenze (per loro) erano imperscrutabili, e mi ricordo ancora vividamente uno dei momenti più salienti a dimostrazione di ciò che ho appena scritto.

 

I dinka (desueto dinca o denca) sono una tribù del Sudan del Sud. Abitano nelle regioni di Bahr al Ghazal e Kordofan.

 

 

La mamma di una delle mie prime fidanzatine (italiana e bianca), era molto curiosa nel conoscere il compagno dalle “insolite fattezze” della figlia. Lo comprendo bene, eravamo ancora piccoli e inesperti, ed era forse la prima esperienza per entrambi.  Comunque, maturati i tempi per una conoscenza più diretta, mi venne posta la fatidica domanda che si pone sempre a qualunque individuo che superi una certa tonalità del rosa della pelle o che abbia un nome/cognome insolito, e cioè: “di dove sei?”

 

 

E la conversazione proseguì tipo così:

 

– “Sono italiano”

– “Si, ma di dove sei originario?”

– “Sono metà italiano e metà nigeriano”

 – “Ma come puoi essere metà italiano se sei nero?”

– “Sono mulatto, mio padre è bianco”

– “Ma dai! Non scherzare!”

– “Si, scherzetto! Sono nero!”

 

 

So bene che nell’incredulità di questa persona non c’era malizia, però, sicuramente, nella sua mente incombeva una disarmante inconsapevolezza, per non dire limitatezza nell’osservare e nel concepire (quasi come se volesse sforzarsi a non comprendere e a perseverare nella sua ignoranza). Ovviamente, questo è stato uno dei casi più “allarmanti”, ma è appunto stato uno dei casi, dei tanti casi, e non un caso unico.
Il fatto più “allarmante” è quello che di casi come questo, in soli 24 anni di vita credo di averne riscontrati troppi, e siamo nel 21esimo secolo …

 

 

Sono stati atteggiamenti come questi (per non parlare di tutte le micro-aggressioni verbali possibili) ad avermi fatto desistere, volevo così tanto farmi vedere e farmi accettare per quello che già sentivo di essere nella sua correttezza ed interezza, ma davanti a me c’era un muro invalicabile.

Senza la sapienza, il tempo converte la frustrazione in disprezzo, se non addirittura odio, e io ho iniziato a disprezzare. Volevo estraniarmi completamente da una cultura che apparentemente non voleva impegnarsi a guardarmi analiticamente, con occhi sinceri. E così facendo, come poteva accettarmi, se non addirittura includermi in essa?

 

Simbolicamente parlando, quando qualcuno ti chiude le porte, vai nella dimora di chi invece le porte le tiene aperte.

 

Sono consapevole di quanto possa suonare opportunistica questa frase, e di fatto lo è. Ma l’ignoranza è ben rappresentata dal buio, e quando si vaga errando senza poter vedere, non si può riconoscer né forma né direzione, sicché qualsiasi luccichio potrebbe confortarci nel seguire una strada. In quel momento io mi slanciai senza indugi verso quello che pareva essere uno scorcio di luce.

Frustrato dalle considerazioni del mondo occidentale sul mio conto, decisi di rinnegare una delle mie metà, un palliativo che mi diede il giusto sollievo, ma che inconsciamente stava estendendo un’esiziale ferita nella mia psiche.

 

Volevo solo avere a che fare con la cultura che apparentemente si dimostrava come l’unica a cui potevo fare riferimento, e di conseguenza iniziai a ricercare sempre più connessioni con gli individui appartenenti esclusivamente a questa cultura. L’ignoranza collettiva (includendo anche la mia) mi aveva portato a scegliere tra una delle mie metà, ed io feci la mia scelta … scelsi quella africana (e che non venga interpretato come se ora vedessi di cattivo occhio l’uniformarsi con una cultura proveniente da questo continente, il problema di fondo è che non bisognerebbe proprio scegliere).

 

 

[Questo è uno dei sintomi più ricorrenti nella “sindrome” del Mulatto: la soppressione di una parte di sé per conformarsi con più facilità all’arretratezza delle capacità comprensive e del pensiero schematico/categorizzante delle società occidentali. Nel caso dei mulatti bianchi/neri, spesso si tende a rinnegare/sopprimere la parte nera, ma succede tante volte (come nel mio caso) che si rinneghi quella bianca].

Così iniziai a ricercare contatti con i miei “simili” (“come se anche i bianchi non lo fossero”).

 

 

Rispetto alla provincia, la città offriva la possibilità di entrare in contatto con diverse compagnie “afro”, e così iniziai a frequentare di più il cuore di Milano. Come citavo prima, da piccolo pensavo di essere l’unico, o uno dei pochissimi della mia “specie”, ma rimasi sorpreso quando venni a conoscere un numero sorprendente di individui come me, con le mie sembianze, con sentimenti affini, condividenti di simili esperienze d’infanzia. Solitamente, tutti quelli di noi che si ritrovavano a far parte di queste compagnie si identificavano come neri, solo neri (l’essere mulatti poteva soltanto connotare una variazione della tonalità della pelle, e per disonestà intellettuale si preferiva sorvolare su quello che nella sua autenticità denotava). Io stesso devo dire essermi trovato a mio agio in questo, ma forse più che un vero agio, si trattava soltanto di un pò di acqua fresca versata su una ferita pungente.

 

A questo punto ci sarebbero molte cose da aggiungere, forse non basterebbero altri 2 articoli per farlo (e magari lo farò in una seconda/terza occasione), ma dopo tutto questo panegirico a ritroso delle mie memorie, è arrivato il momento di centrare l’oggetto di discussione della mia indagine.

 

 

A pensarci, ora, mi sembra palese che culturalmente parlando, come mulatti, non si era tali e quali ai neri non misti (chiedo scusa per questa terribile generalizzazione). Volenti o nolenti le differenze erano ben evidenti, ma non starò qui ad elencarle tutte. Ovviamente per la mentalità di allora, io stesso ignoravo/omettevo diversi aspetti, ma ce n’era uno in particolare che ho sempre “inconsciamente” notato (cioè che notavo ma che mi forzavo sempre a pensare che si trattasse di una casualità), che mi ha sempre pungolato, ma che solo di recente ho deciso di prendere liberamente in considerazione.

 

E cioè: la situazione familiare.

 

 

Nuova premessa: sono il primo a pensare che non si dovrebbero trarre conclusioni sulla base di ipotesi generalizzanti, senza avere dati precisi alla mano, ma sono anche dell’idea che non si può ignorare un aspetto che viene a verificarsi con una frequenza insolita.

In queste compagnie afro, solitamente i “non misti” provenivano da famiglie compatte, e con ciò non intendo dire che facevano parte di ambienti familiari sereni, agiati e di mentalità aperta, anzi … ma, semplicemente, i genitori formavano una “coppia solida” (sempre nell’apparenza sociale), e cioè che entrambi i genitori erano “per legge” o “per Dio” sposati e nella maggior parte dei casi erano entrambi presenti in famiglia.

 

Non si potevano ottenere le stesse constatazioni per le famiglie dei ragazzi misti..

Io, prima di accogliere con libertà questa questione nel mio cuore, ho voluto chiedere pareri altrove. Ho chiesto anche ad amici non mulatti se potessero confermare le mie perplessità facendo riferimento, a loro volta, ai propri amici mulatti, e ciò che ne ho ottenuto è che la stragrande maggioranza dei mulatti, in generale, ha i genitori separati.

 

 

 

Già, io stesso, pensando alla mia esperienza personale (quella dei miei genitori) e a quelle delle mie conoscenze, non potrei affermare il contrario. Dunque la domanda viene spontanea, perché questo?

 

Si tratta di una casualità? Oppure c’è qualche glitch sociale/culturale che fa si che le relazioni tra individui di distante provenienza culturale abbiano una stabilità precaria? Se si, quali potrebbero essere questi glitch? E come mai vengono a verificarsi così sovente in questi tipi di relazione?

 

Mi viene difficile dare una risposta giudiziosa e non posso negare che nel mio immaginario brulicano le più controverse ipotesi. Per ora mi limiterò ad allacciarmi a quelle che sono le strade più condivisibili (sulla stregua di quelle che sono state le teorie più comuni, formulate da me e condivise da altri) ma comunque mi piacerebbe aprire un dibattito a riguardo, e sentire le più disparate opinioni.

 

 

La prima, che è anche la più “scomoda” (soprattutto da ammettere), è l’ipotesi dell’opportunità o della garanzia di stanziamento. Senza peli sulla lingua e senza cadere dalle nuvole, si sa che tante volte, un* maschio/femmina che emigra dal suo paese per raggiungerne un altro, cerca di semplificarsi la vita ancorandosi ad una figura di sicurezza “possedente la cittadinanza” del paese raggiunto. Non serve esplicare l’intensione opportunistica al principio di questo tipo di relazioni. Poi ci può essere aggiunto in mezzo di tutto, pure affetto ed attrazione fisica, ma sempre dei supplementi che a mio parere sono destinati ad esaurirsi in breve tempo, e questo a maggior ragione se le fondamenta del rapporto vengono poggiate sulla mera opportunità e non su delle intenzioni sincere. Poi ci può scappare pure il bimbo (in questo caso un mulatto/bi-razziale/quello che volete), o addirittura, nei casi più perfidi, la procreazione del bebè viene concertata con largo anticipo per consolidare un vincolo relazionale, a vantaggio della garanzia di stanziamento.

 

 

In queste condizioni la coppia è destinata a scoppiare, e il bambino è destinato ad accollarsi tutti i “bug” psicologici (e quindi anche d’identificazione) conseguibili da questo tipo di rottura.

La seconda ipotesi è leggermente meno scomoda, ma non meno ostica. Mi verrebbe da denominarla come la “curiosità esotica/erotica”. Secondo il mio parere, questo dovrebbe essere il caso più frequente e si potrebbe compendiare come segue:

 

Penso che non esista al mondo nessun essere umano che sia attratto (qualunque tipo di attrazione essa sia, anche una semplice simpatia) esclusivamente da simili, appartenenti dello stesso gruppo etnico/culturale. Alcuni pensano di si, ma in realtà io credo che tutti hanno qualche fantasia “esotica”, o più semplicemente siano curiosi a relazionarsi (anche per mera amicizia/conoscenza) con membri di diverse culture/etnie. Da qui, potremmo ripartire la questione in 2 varianti.

 

La prima è la più sfrontata, e ha a che vedere quasi solo ed esclusivamente con la fantasia erotica. Purtroppo, tantissime relazioni nascono da un conseguente affetto, appunto conformatosi a seguito di un legame fisico. Inconsciamente, si vuole soddisfare il desiderio per queste avventure “esotiche”, senza prendere atto del fatto che il soggetto desiderato non è solo un corpo, e se proveniente da un luogo distante, con altissima probabilità, avrà dei valori e delle consuetudini ben differenti e direi anche di una certa rilevanza.

 

Se nasce una relazione da questo tipo di contatto, con grande probabilità entrambi gli individui (o più spesso solo uno dei due) saranno assidui nella ricerca di un appagamento sessuale. Rettificando, saranno molto interessati ai connotati estetici, ma poco interessati, se non completamente disinteressati ai “connotati culturali”, e dunque, con maggior probabilità, saranno indisposti nel cercare di comprendere, confrontare, analizzare ed abbracciare la cultura del partner.

 

 

Anche qui, se relazioni di questo caso tendono a prolungarsi, ci può scappare il/la bambin*, ma in verità potrebbe anche essere che un* figli* venga desiderato da entrambi. Una volta che si supera questo step, credo che la crescita di un figlio dovrebbe implicare un drastico cambio nello stile di vita. Le nuove responsabilità potrebbero affievolire gli impeti di Eros e con l’aumento delle complicazioni, i soggetti cercheranno di agire e risolvere le varie questioni nella maniera più consueta, ciascuno a seconda dei propri valori, delle usanze e soprattutto, a seconda del personale metro di interpretazione/osservazione della realtà che li circonda. Con queste disposizioni, le differenze culturali si fanno sentire, i conflitti interiori ed esteriori iniziano a prendere le redini del rapporto, e poi tirate voi le conclusioni.

(E ricordiamoci che i figli saranno sempre coloro che subiranno ed “erediteranno” questi conflitti).

 

 

La versione meno sfrontata di questo tipo di relazione può nascere anche da una sincera attrazione emotiva o spirituale (o non saprei come meglio definirla), e cioè che non si fonda esclusivamente sul desiderio erotico, e dunque, il forte interessamento verso l’(la vera) identità/individualità dell’altr* potrebbe prevalere sull’estetica. In questo, per individualità intendo l’Io di ciascuno, che a mio vedere è separato dalla cultura. Sarebbe meglio dire che la cultura viene installata all’individualità per formare la personalità, come dei plug-in vengono installati ad un software nel computo di un sistema informatico. Quindi, apprezzare l’individualità di qualcuno, non significa necessariamente comprendere, assimilare e compatibilizzare i “plug-in” (la cultura) che gli sono stati installati nel corso della vita. Questi assetti culturali, in circostanze come quella menzionata precedentemente, s’intrometteranno nel rapporto con tono deciso, dando adito alla medesima sequela di conflitti interiori ed esteriori.

 

Quando non si prendono bene in considerazione le differenze culturali, le conseguenze possono essere devastanti, magari non palesi per i due congiunti, ma manifeste sulla progenie (che in molti casi non viene nemmeno psicologicamente compresa dai genitori, appunto perché non è stato innescato fin dal principio un processo di sincera conoscenza e culturizzazione da parte degli stessi).

 

 

Queste due varianti dovrebbero anche presentarsi come l’impostazione specifica di coppia per il quale, davanti ad un conflitto culturale, o più specificatamente alla manifestazione di disprezzo per un aspetto della cultura dell’altro (se non l’intero reparto culturale), il soggetto che disprezza tenderà ad occultare il suo vero sentimento giustificandosi con qualche espressione che potrebbe similmente seguire in questo modo: “Ma come posso essere razzista io, se sto con un nero/giallo/verde/argento/ecc.”

 

In questo caso viene utilizzato il termine “razzista”, che secondo me è un po’ troppo riassuntivo, dato che per “razza” si tende a conglobare sia la sfera culturale che quella estetica. Come avevo cercato di esprimere in un mio recente articolo, ritengo sia doveroso separare questi due aspetti, anche perché grazie al bagaglio di informazioni disponibili oggigiorno, viene molto difficile affibbiare ad una “specifica razza”, una corrispondente “macro-cultura” (sempre servendoci di questo termine, anche se già superato da tempo, un’ipotetica “razza” comprenderebbe in sé una quantità incomputabile di variazioni culturali).

 

 

Sempre in base alle mie teorie, penso che in molte situazioni il termine “razzismo” potrebbe essere sostituito dal termine “culturalismo”. Pertanto, non per forza l’apprezzamento di alcune caratteristiche fisiche deve implicare anche l’apprezzamento di una provenienza e di un retaggio culturale.

 

Il culturalismo può tramutarsi come atto di superbia della propria cultura nei confronti delle culture altrui. Quindi con l’espressione “Come posso essere razzista se sto con un*… (scegli tu il colore)”, inconsciamente si vuole giustificare un giudizio/commento espresso,  o un’azione svolta, a rivendicare un forte apprezzamento estetico, ma per celare un forte/mite disprezzo culturale.

 

Bisogna dire però, che negli ultimi anni la tendenza a stabilire questo tipo di relazioni è venuta a scemare (così sembrerebbe). Questo forse perché grazie all’esperienza, la globalizzazione, la tecnologia e le sue nuove possibili fonti d’informazione, viene più facile conoscere e familiarizzare con tutto ciò che sembrava “diverso”. Si ha una visione del mondo più onesta, e sicuramente meno propagandata di quanto poteva essere stata nel secolo scorso. Diciamo che se ci si relaziona con qualcuno che proviene da un’altra cultura non si parte più del tutto impreparati (da entrambe le parti). Per questo avevo accennato inizialmente al periodo in cui sono nato e cresciuto, una fase in cui le cose avevano appena iniziato a mutare, quasi imperscrutabilmente.

 

A 10 anni, se mia madre mi portava al centro commerciale con sé, dovevo aspettarmi di affrontare una passerella in preda alle incessanti occhiate dei passanti, occhiate sia di meraviglia, che d’indagine, per “qualcosa” che forse non si era “mai visto”. Di recente (pochi mesi fa), passeggiando per l’Orio Center, mi sono sorpreso di quanti baby mulattini scorrazzassero per le corsie. Le cose mutano, anche se lentamente, ma mutano.

 

 

Mi viene da sperare che con una nuova visione sul mondo (per chi è disposto a vedere), anche che coppie inter-razziali/inter-culturali possano funzionare con maggior successo. E forse in gran parte, questo sta già avvenendo.

 

Ho sempre sostenuto che essere mulatti significa costituire un nuova cultura. Non si è bianchi o neri (sempre con la falsa pretesa che questi due termini possano denotare uno specifico reparto culturale), si è un qualcosa di nuovo che comprende entrambe le due culture di provenienza, una specie di terzo aspetto, una ricchezza da valorizzare, non da trascurare ne da depauperare.

 

 

Le coppie inter-razziali/inter-culturali sono come una giocata all-in al poker, si può perdere tutto, ma si può anche vincere tutto. La differenza sta che nel poker si azzardano mosse vincenti con l’aiuto della scaltrezza o della fortuna, ma in questioni di coppia come queste si è vincenti per volontà, apertura mentale, rivalutazione e crescita sia personale che di coppia.

 

 

Allora, sono proprio queste coppie (e/o poi successivamente famiglie) che celano nell’essenza dei legami fra i componenti, un’incomparabile ricchezza, che deve essere ricercata, per poi essere manifestata, ed anche un potere straordinario, difficile da ottenere, ma estatico quando viene esercitato.

 

 

Non sono solo i figli bi-razziali che devono intraprendere un viaggio alla scoperta, o sarebbe meglio dire al riconoscimento, della vera natura del loro “nuovo” reparto culturale. Ma prima di loro sono i genitori che dovrebbero intraprendere un viaggio analogo, mutando lo stato identificativo da unità rappresentante di una cultura di origine (in esclusiva), a “molteplicità metamorfosante” senza confini o limiti ben definiti.

 

 

Spiego Meglio:

 

Mi viene in mente il commento di un membro del gruppo Métissage Sangue Misto Lounge,  ad un post che parlava appunto di coppie miste (se non ricordo male), e nel commento questa persona (italiana) affermava che si è dovuta nigerianizzare per rinsaldare il rapporto con la sua partner (presumo che la partner sia nigeriana), o forse semplicemente per comprenderla meglio ed agevolare una certa connivenza. E’ proprio questo che intendo. Non voglio entrare nel merito della relazione di questa persona, e la definizione che sto per espletare non vuole assolutamente fare riferimento al suo caso.

 

Per “nigerianizzare” non s’intende che uno deve abbandonare la sua cultura per abbracciarne una nuova. Se si comprende che i reparti culturali hanno dei recinti illusori, e che sono semplicemente dei “plug-in” pre-installati dalla società in cui (forse) casualmente si è venuti a nascere, viene anche facile comprendere che essi non possono definire la vera identità di qualcuno (il vero Io).

 

 

Quando uno riconosce la sua vera natura, può decidere di disinstallare alcuni di questi plug-in, se non sono compatibili con essa, o anche installarne di nuovi, non esistono veri limiti imposti da qualcuno o qualcosa, a parte quelli che imponiamo noi a noi stessi. Lascereste un computer con 2 Tera di memoria interna che avete acquistato, solo con quelle 4 applicazioni pre-impostate in croce? E’ possibile di sì, ma chi vuole sfruttare bene quei 2 Terabyte, scaricherà applicazioni a seconda dei propri interessi e le proprie funzioni (e noi umani siamo molto più che un computer da 2 Tera di memoria).

 

 

Dunque “nigerianizzarsi” non potrebbe significare altro che installare nuovi plug-in nel sistema, in aggiunta a quelli che già erano stati installati in precedenza. E’ una sofisticazione, è una ricchezza. Il sistema non è più uguale a prima, pertanto la personalità muta, e continuare a limitarsi nella definizione dovuta ai vecchi recinti non può che diventare una forzatura, o una superficiale convenzione. E’ come uno stato di coscienza, l’identità non è più determinata da parametri fissi, ma diventa una sorta di sostanza fluttuante, in perenne aggiornamento.

 

Con queste condizioni, due persone intimamente relazionate potrebbero avere la straordinaria possibilità di creare un ambiente familiare sincretico, non tanto per convergenza di elementi distanti tra loro, ma per fusione alchemica o formulazione chimica/molecolare: 2 molecole d’idrogeno e una di ossigeno formano l’acqua, si fonde il rame e lo stagno per ottenere il bronzo, Goku e Vegeta diventano Gogeta, apparato culturale X e apparato culturale Y diventano apparato culturale Z. La famiglia deve costituire una cultura tutta nuova, unica, non replicabile, esclusivamente  attribuibile a quel nucleo familiare.

 

 

Questo, per i bi-razziali, sarebbe un ambiente idillico per crescere, catalizzando tutte quelle forze/energie che agevolano la libera espressione di sé. Infatti, l’ultima delle versioni che ho voluto citare in questo articolo, è proprio quella in cui questo processo di famiglia non viene a verificarsi.

 

Niente da contestare riguardo le dinamiche che potrebbero dare origine a qualsiasi tipo di rapporto tra i 2 (che poi per convenzione mi sto riferendo sempre all’impostazione familiare più comune che è composta da due individui di qualsivoglia sesso, ma chissà, forse queste analisi potrebbero essere valide anche per altre impostazioni familiari). Presupponendo che nel rapporto ci siano stati gli affetti ed i propositi più sinceri, questi comunque potrebbero non prevalere nel caso in cui dei conflitti culturali iniziassero ad insediarsi nella psiche di entrambi, come una lacerazione, che pare insignificante alla prima comparsa, ma che se logorata, può estendersi sino a recare danni quasi impossibili da risanare.

Alla fine la “sentenza” potrebbe essere l’unica che segue e che si confà a tutte le versioni e varianti possibili.

 

 

Qualsiasi atto di superbia è pernicioso, così come potrebbe esserlo l’orgoglio ostinato per la propria cultura di appartenenza. Entrambi dovrebbero essere capaci di confrontarsi con sincerità e rivalutare se stessi (e dunque, anche il proprio reparto culturale). Avere il coraggio di cambiare, adattarsi e togliere (o metamorfosare) quegli aspetti culturali che potrebbero essere, a lungo termine, deleteri per tutti. Per chiosare, è un perpetuo andare e venirsi incontro.

 

 

Rammento che queste sono tutte teorie, formulate da un ragazzo di 24 anni che non ha mai avuto nessuna esperienza genitoriale. Vorrei chiarire (per chi ci creda o no) che non volevo essere presuntuoso ed arrogarmi il diritto di parola e di giudizio per un ruolo o un’esperienza mai affronta in prima persona. Però ci tengo a condividere il mio punto di vista da figlio bi-razziale.

 

 

Forse, il vero problema di fondo, nel mio personale processo d’identificazione (che iniziò già dal primo momento che divenni cosciente e a cui posso ricondurre le mie primissime memorie), è stato appunto il divario che c’era tra i miei genitori. Non tanto il divario culturale, ma piuttosto un “gap” che sarebbe dovuto essere colmato da quell’importante dose di comprensione, adattamento e cambiamento. Da bambino percepivo due blocchi culturali ben distinti, pre-stabiliti e forse anche per-sempre-stabiliti, non comunicanti e non interscambiabili. Non riuscivo a scrutare le zone del legame, nemmeno quelle di convergenza. Due categorie non comunicanti in un mondo di categorie. Tutto questo mi faceva sentire un errore del sistema. Una cosa fuori dal consueto, una mezza cosa, mai completa per entrambe le parti.

Mi porto dietro ancora molte insicurezze, generate da tutto questo. Ma la battaglia continua…

 

 

Concludo ponendovi una domanda: amate di più la vostra cultura o la/le persona/e (il loro vero Io) con cui avete deciso di condividere la vostra vita?

 

 

 

 

Ciao a tutti! Il mio nome è Obichukwuka Leandro Lyone. Nome d’arte è Dugiotto. Nato e cresciuto nel nord Italia, sono il risultato di unione tra una madre nigeriana Igbo e un padre siciliano.
Scrivo per necessità di espressione, provando a trasmettere ed argomentare i miei punti di vista, anche nella speranza di poter aprire dibattiti arricchenti. I miei interessi rivoluzionano attorno le sfere dell’arte, della storia, dell’antropologia, della religione e della spiritualità.

 

Il Mio Blog:   https://www.dugiotto.com/

 

 

Obichukwuka Leandro Lyone. Nome d’arte è Dugiotto.

 

 

 

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