Deambulo ergo sum – Cammino, dunque sono.

 

 

Qualche sera fa, ad una cena, sono stata ispirata dalla passione di un amico per “il camminare”.  Non soddisfatta della mia personale introspezione sull’argomento, me ne sono andata a girovagare per gli scaffali di una vecchia libreria e.. indovinate un po’? Mi è capitato tra le mani questo piccolo/grande miracolo. “Storia del camminare”, un libro illuminante di Rebecca Solnit (Bruno Mondadori Editore).

 

E’ davvero incredibile quanto noi essere umani, pensanti e dotati di libero arbitrio, diamo per scontato un atto naturale del genere, come lo è anche il respirare ed il dormire. Noi tutti camminiamo. La nostra storia di specie umana ha inizio con i piedi. Eppure camminare ci sembra l’emblema della nostra banalità quotidiana, persino della povertà – dice la Solnit – costellata da frasi pedagogiche quali, “bada dove metti i piedi”, “impara a stare con i piedi per terra”, “cammina a occhi aperti” e simili, l’educazione a camminare è diventata un’ingiunzione fin troppo fastidiosa quando ci viene imposto di rinunciare alle nostre protesi meccaniche – automobile e motorino – che tendono ad atrofizzare quanto ha sorretto e condotto nelle parti più impervie del pianeta l’intera umanità per millenni.

 

L’avevano detto anche i saggi dell’antichità che deambulare era il vero rimedio per i mali dell’anima. Aristotele insegnava camminando sotto i portici del Liceo, I sofisti invece si spostavano a piedi di città in città per insegnare la retorica. Socrate amava camminare e dialogare e gli stoici discutevano di filosofia passeggiando sotto la Stoa, i portici di Atene.

 

Centinaia di migliaia di camminatori, viandanti, vagabondi, girovaghi, flâneurs, bighelloni, pellegrini solcano in ogni istante il mondo, pronti a tutto pur di andare.

 

Ha scritto Lao Tse che un viaggio di mille chilometri comincia sempre con il primo passo, che è l’unico che conta perché senza quello, come per il respiro, non ce ne saranno altri.

 

E perché segna un distacco.

 

Dalla vita di tutti i giorni, dagli affetti, dalle comodità, dalla propria casa, dal lavoro.

 

Nel libro la Solnit dice qualcosa che ha attirato la mia attenzione:  l’escursionista e il pellegrino hanno molti tratti in comune. Entrambi intraprendono un viaggio a piedi, a tratti faticoso e a volte pericoloso. Si muovono in paesaggi insoliti se non sconosciuti. Affrontano il freddo e il caldo, la pioggia o il sole cocente. Osservano panorami sconosciuti, incontrano animali, fanno conoscenza con persone impegnate nella stessa impresa. Hanno una meta: un santuario o una cima e sono soddisfatti quando riescono a raggiungerla. Ma il più importante, per entrambi, non è l’arrivo ma il viaggio. La vera impresa è quella di essere in cammino.

 

Concluderei dicendo che, sotto un certo profilo, c’è una verità vera: camminare significa aprirsi al mondo. L’atto del camminare immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la partecipazione di tutti i sensi. Si cammina per nessun motivo, per il piacere di gustare il tempo che passa, per scoprire luoghi e volti sconosciuti, o anche, semplicemente, per rispondere al richiamo della strada. Camminare è un modo tranquillo per reinventare il tempo e lo spazio. Prevede una lieta umiltà davanti al mondo. Già. UMILTA’.

 

Ebbene: consiglio vivamente il libro e…. mi sa, grandi e lunghe passeggiate 🙂

 

©Wizzy™

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