I Vichinghi, gli Africani, le treccine e l’appropriazione culturale.

Quanti gradi di appropriazione e ri-appropriazione sono necessari perché un segno perda il suo significato originario, o ne acquisti uno nuovo in un contesto diverso?

Negli ultimi anni, la controversia sulle trecce e sui capelli intrecciati è diventata un argomento di accese discussioni. Mentre ad alcune persone sembrano solo un’acconciatura, altri sentono che fa parte della loro cultura e tradizione e che avere i capelli intrecciati in uno stile particolare senza appartenere a una certa cultura, sia un esempio di appropriazione culturale.

In effetti, le trecce esistono da migliaia di anni e sono apparse attraverso culture e società più disparate: nessun gruppo di persone può affermare che le trecce appartengano a loro.

 

Le origini delle trecce.

Le treccine sembrano essere l’acconciatura più antica dell’umanità. Infatti, la Venere di Brassempouy (detta anche “la dama con il cappuccio”) e la Venere di Willendorf sono due statuette risalenti a circa 22.000 anni a.C.; entrambi rappresentano una donna con i capelli intrecciati. Quando osserviamo l’arte preistorica e in particolare le statuette femminili dette “Venere” risalenti al periodo paleolitico gravettiano o perigordiano superiore (tra 29.000 e 22.000 anni fa) e scoperte in Europa, rimaniamo colpiti dalle loro somiglianze con l’Africa. Oggi, la maggior parte dei preistorici si è schierata dalla parte della teoria secondo cui queste figure hanno intrecciato i loro capelli ruvidi. Questo tipo di acconciatura intrecciata si è diffusa dalla Valle del Nilo.

Nubiani, egiziani e gli antichi ebrei adottarono per primi i capelli acconciati con sottili dreadlocks, mentre parte della popolazione nera preferiva radersi i capelli, compresi i sacerdoti egizi e le donne di origine Masai. Altri usavano l’acconciatura detta “afro” o anche il cosiddetto “gradiente” che ricorda l’elmo di Ramses.

 

 

 

Successivamente, questo tipo di acconciatura si sarebbe diffuso in tutto il resto dell’Africa nera. I capelli intrecciati mostravano la casta di chi li indossava, i diversi eventi della vita (matrimonio o lutto) o il rango sociale.

A ovest c’erano i Fulani, Akan, Dogon, Mande, Yoruba, Wolof e Hausa

Al centro c’erano i Mangbetous, Fang, Bamileke e Bantu (di tutta l’Africa) ecc.

A est, i Masai.

Le altre tracce storiche, riguardano le prime grandi civiltà africane come l’antico Egitto, dove l’acconciatura simboleggiava il rango sociale. Uomini e donne indossavano diversi tipi di trecce di capelli: treccine o semplici trecce. Erano spesso ornati con fili d’oro e altre raffinatezze. A quel tempo, i capelli ricevevano cure speciali come olio profumato e fiori di loto. Così, il re protodinastico di Tera-neter, del paese Kemet (antico Egitto), portava i capelli raccolti in trecce. Questo tipo di capelli intrecciati è stato poi osservato in molte caste della popolazione egizio – nubiana (scribi, faraoni, artigiani) e nelle donne.

 

 

Nell’età del bronzo e del ferro (1200 – 500 a.C.), molte persone in Asia Minore, Caucaso, Mediterraneo orientale, Nord Africa e Vicino Oriente sono raffigurate nell’arte con capelli o barbe intrecciati. In alcune regioni le trecce erano un mezzo di comunicazione e di stratificazione sociale. Modelli specifici potrebbero determinare a quale tribù apparteneva una persona e anche indicare l’età, lo stato civile, la ricchezza, il potere e la religione di una persona.

 

Come le trecce sono arrivate in Europa?

 

Le  trecce, in Europa, furono introdotte dai commercianti greci. Ciò  avvenne durante il 3500 a.C. in Egitto, dove vennero a conoscenza di  questa acconciatura e lo introdussero in altre parti del continente.

Le  trecce non sono diventate estremamente popolari tra le persone in  Europa fino al recente passato. Tuttavia, sono stati soggetti ad alcune  importanti evoluzioni nel tempo e sufficienti per far cambiare il modo  in cui si acconciavano ed esprimevano sé stessi. Tuttavia, i modelli di  intrecciatura non sono cambiati molto e sono rimasti gli stessi.

Capelli  e barbe intrecciati erano raffigurati continuamente nelle scoperte  archeologiche dei Vichinghi e facevano parte della propria pratica  spirituale nella tradizione dei nativi americani. La società europea  medievale promuoveva la modestia ed era socialmente inaccettabile per le  donne avere i capelli scoperti e sciolti in pubblico, e quindi li  indossavano in trecce spesse e belle che di solito venivano fissate  sulla testa per mantenere i copricapi in posizione.

L’importanza dei capelli nella cultura Vichinga

Particolare  interesse hanno le acconciature dei Vichinghi per l’accesa discussione  che continuamente stimolano sul tema. L’era vichinga si estendeva tra  l’VIII e l’XI secolo e gli uomini e le donne vichinghi vengono spesso  rappresentati come selvaggi, aggressivi, sporchi e disordinati, che  amavano, frequentemente, entrare in guerra.

Sfortunatamente, non  esistono molte fonti, che possono dirci come i vichinghi si tenevano i  capelli. I ricercatori dell’era vichinga hanno esaminato testi,  incisioni e statue antichi, nel tentativo di saperne di più sull’igiene  vichinga e sulla vita quotidiana vichinga in generale. Tuttavia, le  prove suggeriscono che i norvegesi si prendessero molta cura dei loro  capelli. Dai reperti recuperati, gli storici hanno stabilito che  l’igiene e la toelettatura erano molto importanti nella società norrena.  Alcune delle reliquie più comuni rimaste dall’era vichinga sono  strumenti per la toelettatura, inclusi pettini per capelli.

I  vichinghi praticavano anche bagni frequenti e si pettinavano almeno una  volta al giorno. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che i pettini  fossero usati per il controllo di pidocchi e lendini. Eppure questa  ipotesi non è confermata; pochi studi microscopici sono stati eseguiti  su manufatti vichinghi e gli studi condotti non hanno prodotto risultati  conclusivi. Potrebbe essere che ai vichinghi piacesse semplicemente  farsi pettinare i capelli.

 

 

Louise Kæmpe Henriksen, curatrice del Museo delle navi vichinghe di Roskilde, ha affermato,  contraddicendo le leggende,  che i vichinghi erano, invece, un popolo  pulito, amava tenersi ordine e curarsi i capelli in modo quasi  maniacale. Diversi reperti archeologici hanno rivelato pinzette,  pettini, detergenti per unghie, detergenti per le orecchie e  stuzzicadenti dell’era vichinga. Gli uomini avevano lunghe frange e  capelli corti sulla nuca. Più in basso sul collo, la pelle era rasata.  Una testa maschile scolpita, tridimensionale, su un carro nel tumulo  funerario della nave di Oseberg, in Norvegia, ha  mostrato che i capelli dell’uomo erano ben curati ed aveva dei lunghi  baffi eleganti e una barba sul mento che arrivava fino ai baffi, ma,  apparentemente, non fino al guance. Anche fonti scritte dell’Inghilterra  medievale di John of Wallingford hanno sostenuto questo punto di vista. Nella sua cronaca del 1220 – un  paio di secoli dopo che i Vichinghi avevano devastato l’Inghilterra –  descriveva i Vichinghi come dei rubacuori ben curati:

Avevano  anche conquistato, o pianificato di conquistare, tutte le migliori  città del paese e causato molte difficoltà ai cittadini originari del  paese, poiché avevano – secondo le usanze del loro paese – l’abitudine  di pettinarsi i capelli ogni giorno, di fare il bagno ogni sabato , a  cambiarsi spesso d’abito e ad attirare l’attenzione su di sé per mezzo  di tanti di questi frivoli capricci. Così assediarono la virtù delle  donne sposate e persuasero le figlie anche dei nobili a diventare loro  amanti“.

Esiste, però, una fonte che  contraddiceva questa propensione alla pulizia, alla cura dei capelli e  all’ordine dei  Vichinghi. L’ambasciatore arabo IBN Fadlan, che incontrò un gruppo di vichinghi sul Volga, li descrisse come “la più sporca delle creature di Allah“.  Gli arabi erano musulmani e provenivano da una cultura in cui le  persone avrebbero dovuto fare il bagno prima di ciascuna delle loro  cinque preghiere quotidiane, mentre i vichinghi potevano fare il bagno  solo una volta alla settimana.

Nella cultura popolare  le raffigurazioni dei vichinghi sono spesso rappresentate come alte,  con i capelli lunghi, che indossano elmi con le corna e brandiscono asce  e spade. Gli aspetti di questa immagine sono veri: i vichinghi avevano i  capelli lunghi che di solito erano rossastri o biondi. Eppure la concezione comune che le trecce fossero popolari nella cultura vichinga non è del tutto esatta.

Alcuni  vichinghi, in particolare le giovani donne, potrebbero aver indossato  le trecce. Tuttavia, le trecce probabilmente non erano l’acconciatura  più comune per la maggior parte dei vichinghi. Esaminando statue e testi  scoperti dell’era vichinga, sembra che la maggior parte dei guerrieri  norvegesi portasse i capelli corti, rendendo le trecce piuttosto  insolite.

Altre acconciature esistevano nella cultura norrena.  Ad esempio, alcuni uomini vichinghi portavano spesso i capelli  all’altezza delle spalle e probabilmente i loro tagli di capelli  differivano tra le classi sociali. I capelli corti erano associati alla  servitù e alla classe inferiore, i capelli lunghi appartenevano alle  classi sociali più elevate sia nelle donne che negli uomini,  l’intrecciatura è un modo per gestire i capelli lunghi delle classi  sociali più elevate.

Notevoli vichinghi nel corso dei secoli hanno menzionato i capelli nei loro epiteti. Harald Fairhair e Sweyn Forkbeard erano  entrambi uomini reali vichinghi, con menzioni dei loro capelli nei loro  nomi. Affinché i capelli siano inclusi nei titoli vichinghi, i capelli  devono aver avuto un alto grado di importanza nella società norrena. È  un dato di fatto che i vichinghi avevano forti convenzioni sociali  riguardo alla pulizia e ai capelli stilizzati. Di solito, i vichinghi  dovevano avere barbe e capelli puliti e ben curati. Uno è una poesia  sulla morte del figlio dell’antico norvegese Odino,  in cui affermano che l’unico motivo per cui Odino non è ben curato e  lavato quel giorno è che è in lutto, dandoci la nostra comprensione che  era consentito solo in quelle circostanze.

 

 

Acconciature maschili tra i vichinghi

Nei  media contemporanei, i capelli vichinghi sono spesso mostrati come  attorcigliati in lunghe trecce o nodi elaborati. Tuttavia, le  acconciature vichinghe probabilmente non erano conformi a come le  immaginiamo oggi. Le acconciature differivano tra classi e professioni.  Un vero guerriero vichingo, uno che esplorò e fece irruzione su navi  lunghe vichinghe, probabilmente portava i capelli corti dietro la testa e  lunghi davanti, in una specie di cefalo rovesciato. Questo stile  sarebbe stato il più conveniente in battaglia, per impedire ai nemici di  afferrare i capelli di un vichingo. Inoltre, i vichinghi avrebbero  potuto indossare i loro elmi più comodamente tenendo i capelli corti  nella parte posteriore.

Per altre professioni nella società  nordica, secondo quanto riferito dai studiosi, gli uomini portavano i  capelli lunghi, almeno fino alle spalle. Secondo Mary Wilhelmine Williams,  un’altra storica della cultura vichinga, gli uomini si spazzolavano  indietro i capelli dal viso e li fissavano con una fascia di seta, o  talvolta una fascia d’argento o d’oro.

Anche lo sbiancamento era una pratica comune tra i vichinghi. Mentre i vichinghi della  Scandinavia settentrionale tendevano ad essere naturalmente biondi, i  vichinghi danesi avevano i capelli più scuri e potevano essere rossi o  bruni. Quelli dai capelli più scuri usavano un agente sbiancante a base  di liscivia per macchiare i capelli e la barba di un colore paglierino  più chiaro. Quindi, sebbene gli uomini vichinghi di solito portassero i  capelli lunghi – ad eccezione dei guerrieri vichinghi, che probabilmente  portavano i capelli molto corti, con la frangia più lunga davanti – le  prove fotografiche e testuali che abbiamo oggi non supportano l’idea che  i vichinghi maschi indossassero le trecce come una pettinatura comune.

 

 

Acconciature femminili tra i vichinghi

Anche  se le trecce non erano un’acconciatura vichinga maschile, le trecce  venivano occasionalmente indossate dalle donne norrene. Le ragazze non  sposate potevano portare i capelli sciolti o intrecciati, a significare  il loro status di celibe nella società. Dobbiamo, infatti, suddividere  le tipologie di donne in due categorie, quelle sposate e quelle non  sposate. Nel corso della storia dell’era vichinga, il valore di una  donna dipendeva dal fatto che fosse sposata o meno,

Spesso  ci si aspettava che le ragazze single portassero i capelli lunghi e  sciolti e di solito li intrecciavano solo per un’occasione speciale o  per noia. Le donne sposate, invece, portavano i capelli intrecciati, ma  non per una scelta di moda, quanto piuttosto perché erano più comodi. Il  motivo per cui i capelli intrecciati erano un’opzione preferita dalle  donne sposate è che spesso si coprivano la testa con un berretto. A  causa di questo accessorio, le acconciature comuni tra le donne sposate  erano strette, con panini (acconciatura con capelli avvolti in una  bobine circolare su se stessi) bassi o due trecce strette.

Tuttavia,  questa, probabilmente non era una norma sociale consolidata e le donne  sposate lo facevano semplicemente per comodità. Ci sono, invece, molti  ritratti di donne che portano i capelli sciolti con un berretto sopra.

Secondo la storica Mary Wilhelmine Williams,   i loro capelli potrebbero essere stati così lunghi che alcune ragazze  infilano le estremità nelle cinture. Intagli recuperati dall’età  vichinga rivelano anche che le donne norrene indossavano code di cavallo  oltre al panino arrotolato. In effetti, la coda di cavallo era  probabilmente un’acconciatura popolare, poiché le raffigurazioni di  donne con la coda di cavallo si trovano spesso su pietre vichinghe e  pezzi d’oro.  Sembra, comunque, che le femmine indossassero le trecce  molto più spesso degli uomini.

 

 

I capelli come significante sociale

La società  vichinga era divisa in diverse classi sociali e l’acconciatura avrebbe  potuto essere un indicatore importante per lo status di un vichingo.  Abbiamo già visto che i guerrieri vichinghi avrebbero avuto un taglio di  capelli distinto, a rovescio, per distinguerli dagli uomini di altre  professioni. Anche le donne sposate e le ragazze avevano acconciature  diverse. Alcuni ricercatori ipotizzano che le code di cavallo arrotolate  avrebbero potuto essere un segno di status sociale per le donne  d’élite.

Per mantenere i capelli lunghi e sani, era necessaria una  manutenzione costante dei capelli per evitare che si spezzassero o si  aggrovigliassero. Le code di cavallo arrotolate richiedono capelli molto  lunghi, quindi le donne che le hanno indossate dovevano aver avuto le  risorse per prendersene cura.

Vediamo ulteriori prove dell’uso dei  capelli come indicatore sociale quando osserviamo i tagli di capelli  delle classi inferiori. Gli schiavi che vivevano in Scandinavia, erano  noti per avere i capelli tagliati corti. Sia gli schiavi che i maschi  mantenevano i capelli più corti dei norvegesi liberi, rendendoli  facilmente distinguibili.

Perché pensiamo che i vichinghi si intrecciassero i capelli, più per un motivi ritualistici che per altro?

Che  i Vichinghi si intrecciassero i capelli è stato registrato, per la  prima volta, dai romani, riguardo ai Celti e ai Britanni. Rilevarono  che, in realtà, lo facevano come rituale e secondo convinzioni sociali.  Gli anglosassoni in seguito adottarono alcuni stili britannici. Lo  stereotipo delle trecce si è confuso con l’appropriazione culturale  quando sono state tutte classificate nella sezione delle “tribù  barbare”, lasciando l’idea che i Vichinghi si acconciassero i capelli  come avevano una volta i Celti e i Britanni.

 

 

Separare la realtà dalla finzione

Come  vedete c’è una gran bella confusione su questo tema ed è questo a  renderlo molto interessante. Queste rappresentazioni moderne dei  vichinghi (la serie Netflix Vikings ne è un emblema) li raffigurano spesso, con spire e dreadlocks nei  capelli, mentre facevano irruzione sulle coste dell’Inghilterra. In  realtà, come abbiamo visto fin qui, pare vinca la teoria che i guerrieri  vichinghi portassero i capelli lunghi davanti e corti dietro, in modo  che, in  battaglia, avrebbero aiutato a tenere  gli elmi sulla testa e  impedito ai loro nemici di afferrare i capelli. Tra le persone che  vivono nella società nordica, le giovani donne avrebbero indossato di  più le trecce. Tuttavia, potevano anche scegliere di portare i capelli  sciolti e, dalle prove archeologiche, sembra che le code di cavallo  fossero l’acconciatura più popolare per le giovani donne.

Pertanto,  sebbene le versioni moderne delle acconciature vichinghe siano oggi  popolari, gli stili contenenti trecce, sfortunatamente, non sono  accurati per l’aspetto dei norvegesi durante l’era vichinga. Proviamo a  riflettere su quanto siano distorti gli stereotipi e come possono  cambiare il modo in cui pensiamo a un’intera cultura.

 

 

L’origine delle trecce Africane

C’è un motivo  per cui i capelli sono parte integrante della storia e del patrimonio  dei neri. Sebbene complessa, l’evoluzione dei capelli afro e il suo  impatto sulla società nel tempo racconta una storia dentro di sé, una  storia che la dice lunga sull’esperienza e l’identità dei neri.

Le  donne africane  hanno iniziato ad usare le trecce per una varietà di  scopi, diventando, nel tempo, parte della loro cultura. Nella maggior  parte delle tribù africane, usare i capelli intrecciati era un metodo  unico disponibile per capire la tribù e identificare le persone. Per lo  stesso motivo, è stato possibile scoprire molti diversi tipi di trecce  seguite da persone che appartenevano a diverse tribù che esistevano  all’interno del paese.

Dalle classiche trecce ai dreadlocks e  alle forme afro, molte delle acconciature nere più iconiche si possono  trovare in disegni, incisioni e geroglifici dell’antico Egitto. Quando  il busto dipinto in arenaria della regina egiziana Nefertiti fu  riscoperto nel 1913, la sua bellezza regale, accentuata da  un’acconciatura imponente, era innegabile e divenne rapidamente un’icona  globale del potere femminile. Spesso usate al posto dei copricapi, le  parrucche simboleggiavano il proprio rango ed erano essenziali per i  reali egiziani e ricchi, maschi e femmine allo stesso modo. Il 2050 a.C.  il sarcofago della principessa Kawit ritrae la  principessa mentre si fa pettinare i capelli da una serva durante la  colazione. Parrucche come questa erano spesso abbinate a pezzi  intrecciati di capelli umani, lana, fibre di palma e altri materiali  posti su una spessa calotta cranica. La legge egiziana proibiva a  schiavi e servi di indossare parrucche.

Le antiche comunità  africane modellavano i loro capelli per qualcosa di più del semplice  stile. In tutto il continente, l’acconciatura di una persona potrebbe  dirti molto su chi era e da dove veniva. Le trecce e le altre  acconciature intricate sono state storicamente indossate, soprattutto  dai Yoruba, Mende e Wolof, per indicare lo stato civile, l’età, la  religione, identità etnica, la ricchezza e il rango nella società. I  capelli erano fondamentalmente un segnale visivo significativo con  connotazioni spirituali che comunicavano vitalità, prosperità e  fertilità oltre a servire come mezzo per parlare con il Divino che si  pensava avesse luogo attraverso i capelli. Per realizzare questi look  così elaborati possono volerci ore e ore di lavoro, a volte intere  giornate: questi procedimenti venivano anche utilizzati, in passato, per  creare un legame con la comunità, la famiglia e gli amici, una  tradizione che si tramanda da generazioni.

La persona che  intrecciava i capelli, lo faceva sia come servizio per la società sia  come gesto rituale, senza ricevere nulla in cambio. Non solo: si pensava  che i capelli avessero un significato spirituale e grandissimi poteri.  Siccome si trovano nella parte più alta del corpo, le persone pensavano  che fossero il tramite utilizzato dalle divinità e dagli spiriti per  raggiungere l’anima. Intrecciare i capelli, per esempio nella cultura  Yoruba, era una forma d’arte, tramandata dalle donne più anziane della  famiglia, e le parrucchiere venivano considerate non solo figure sagge  ma anche i membri più degni di rispetto della società, perché creavano  un collegamento diretto con il divino a cui mandare messaggi.

 

Fu solo all’inizio della tratta degli schiavi transatlantica nel 15°  secolo – che spogliò il continente dei suoi oggetti di valore, le sue  ricche culture e ridusse in schiavitù la sua gente – che i capelli afro,  così come i lineamenti neri e il corpo nero sono stati ridicolizzati,  disumanizzati e “alterati” rispetto agli standard di bellezza europei.   Durante la tratta, circa 12 milioni di uomini, donne e bambini africani  furono rapiti e venduti come schiavi. Una delle prime cose che i  mercanti di schiavi fecero alle persone catturate fu radere i capelli.  Considerata la forte importanza spirituale e culturale dei capelli in  Africa, è stato un atto particolarmente disumanizzante, inteso a  strappare via il loro legame con le loro culture. Quando i loro capelli  sono ricresciuti, non hanno più avuto accesso ai trattamenti a base di  erbe, agli oli e ai pettini della loro terra natale. I capelli che un  tempo erano motivo di orgoglio ed espressione di identità erano spesso  nascosti sotto i panni per coprire trecce ruvide e aggrovigliate e  proteggerle dalle ore trascorse a lavorare duramente sotto il sole. Con  strumenti e tempo limitati per prendersi cura dei propri capelli, le  persone sono diventate creative con ciò che avevano a loro disposizione:  facendo affidamento su grasso di pancetta, burro e cherosene come  balsami, farina di mais come shampoo secco e strumenti per la cardatura  in pile di pecora come pettini.

In poco tempo le trecce, più  di una comodità, sono diventate uno strumento salvavita. E così le  donne, a cui generalmente veniva concesso di spingersi più lontano  rispetto agli uomini, sono diventate responsabili del mappaggio delle vie di fuga. Dato che disegnare o scrivere le indicazioni sarebbe  stato troppo rischioso (e anche piuttosto complesso, con un’istruzione  scarsa o pressoché nulla), hanno iniziato a “disegnare” delle mappe  nelle acconciature, nascondendo all’interno alcuni frammenti d’oro e dei  semi per il sostentamento dopo la fuga.

 

 

Quanti gradi di appropriazione e ri-appropriazione sono  necessari perché un segno perda il suo significato originario, o ne  acquisti uno nuovo in un contesto diverso?

Ho  trovato molto interessante l’analisi della giornalista e scrittrice  Giulia Blasi, autrice di “Manuale per ragazze rivoluzionarie”, che qui  riporto in parte.

La questione della cultural appropriation è dibattuta nel mondo anglosassone con una serietà che risulta strana  ed esagerata agli occhi degli europei. Gli italiani, in particolare,  guardano a queste diatribe con una sorta di strabiliato stupore,  chiedendosi se davvero sia possibile accapigliarsi su queste faccende e  sul percome si esageri così tanto con il politicamente corretto. Per  affrontare questa ampia questione dovremmo uscire dall’ottica europea ed  entrare in quella anglosassone, in particolare quella dei paesi che in  origine erano colonie e dove i bianchi conquistatori hanno stabilito una  forma di supremazia culturale. Una supremazia culturale conquistata con  un atto di violenza territoriale da parte dei conquistatori, che  arrivano sulle sponde di un continente che considerano terreno vergine,  lo trovano occupato, sterminano e ghettizzano i suoi abitanti fino a  ridurli a una minoranza culturalmente ininfluente, chiusa nelle riserve.  Gli stessi coloni commissionano il rapimento di uomini e donne dalle  coste africane per poi venderli come schiavi, costruendo loro intorno  una narrazione che mira a stabilirne la sostanziale inferiorità mentale e  morale. L’abolizione della schiavitù, poi, non è che decreti  un’automatica inclusione degli ex schiavi nella società dei bianchi: la  segregazione persiste per oltre un secolo. Gli africani d’America, ora  americani a tutti gli effetti, per il governo federale rimangono un  popolo a parte fino al Civil Rights Act del 1968.

E così  anche in Australia, dove la violenza e la ghettizzazione colpiscono le  popolazioni aborigene, che vivono in condizioni di marginalità mai  davvero affrontate. In Sudafrica, dove l’apartheid (letteralmente:  “separazione” in afrikaans) è stato legge fino al 1994, e le questioni  legate all’appartenenza etnica vengono toccate con molta cautela. Lì  dove c’è stata conquista, prima o poi arriva anche la rivendicazione dei  gruppi etnici sulle cui spalle i coloni bianchi hanno costruito il  paese.

È un contesto culturale che qui in Italia, terra di  conquistati perenni e conquistatori falliti, ci è difficile comprendere  appieno. Al netto dei razzismi, che nei decenni si sono modificati nel  bersaglio se non nella sostanza (dai meridionali agli albanesi ai rumeni  ai profughi per fame o per guerra), la cultura italiana si fonda  interamente sulla contaminazione: arabi, normanni, francesi, austriaci,  spagnoli, celti, longobardi, chiunque sia passato sulla Penisola o sia  approdato nelle isole circostanti ha lasciato una traccia di cui gli  italiani si sono impossessati e che è finita nel calderone della cultura  nazionale. Gli stranieri arrivati in Italia vent’anni fa hanno figli  che parlano italiano con accento regionale: le seconde generazioni  tendono all’assimilazione, all’integrazione, non alla rivendicazione  delle origini. Ogni regione ha la sua specificità, ma le aree di confine  si contaminano, i pordenonesi parlano dialetto veneto, i ciociari un  ibrido di romanesco e abruzzese. L’italiano è meticcio per natura,  storia e tradizione, e dovunque vada tende a integrarsi nel tessuto  sociale: diventa americano, argentino, canadese. Si tratta, comunque,  sempre di migrazioni volontarie: si va in altri paesi, con mezzi leciti o  illeciti, per cercare un futuro migliore. Non si viene rapiti,  picchiati e venduti come schiavi. Per quanto le condizioni della  traversata e della permanenza possano essere dure e umilianti, la  speranza di superare le difficoltà e trovare una casa rimane.

In questo contesto diventa difficile per noi capire perché per i ragazzi bianchi americani intrecciarsi i capelli nei cornrows tipici degli afroamericani sia diventato un gesto offensivo, piuttosto  che una scelta di stile. Un bianco americano progressista non  permetterebbe ai figli di tagliarsi i capelli come i calciatori di serie  A: la cresta alla moicana è considerata patrimonio dei nativi  americani, e all’interno delle tribù identificava il leader e  protettore. Qui da noi identifica Genny Savastano e Nainggolan. La  domanda è: se per gli americani è sconsigliato acconciarsi i capelli  secondo l’usanza di una popolazione che hanno oppresso e spinto ai  limiti dell’estinzione, cosa pensano gli americani quando vengono in  Italia e vedono la pettinatura di Balotelli?

Gli  italiani si sono lasciati la schiavitù alle spalle qualche millennio fa  con la liberazione dei greci che servivano nelle dimore degli antichi  romani, trasmettendo contemporaneamente la loro cultura e anche la loro  religione: le calzature con i legacci intrecciati alla caviglia sono  detti “sandali alla schiava” senza che nessuno alzi la voce per  protestare, ma quando la definizione viene tradotta letteralmente da un  sito di moda, all’estero si leva un coro di sdegno unanime. Le loro schiave, dopotutto, sono le trisavole di Michelle Obama.

La  questione si espande ben oltre le faccende di stile, passa per  l’utilizzo – oggettivamente poco rispettoso, nei risultati se non nelle  intenzioni – di copricapi piumati e sombrero messicani, e finisce dritta  nell’adozione da parte dei bianchi di stilemi artistici di dominio dei  neri.

E qui arriviamo al nucleo del problema: fatta salva la  legittimità delle rivendicazioni e il diritto di tutti di manifestare  fastidio, dolore e offesa, che mondo sarebbe quello di oggi se tutti  fossero sempre rimasti dentro i propri binari? È un’operazione ai limiti  dell’ucronia, perché andando abbastanza indietro né Pizarro, né Colombo  né i vichinghi sarebbero mai partiti per le Americhe. Ma proviamo a  immaginarlo: se nella storia della musica e dell’intrattenimento non si  fosse verificata qualche forma di contaminazione, che cultura avrebbero  avuto gli Stati Uniti da esportare? Se la cultura black non avesse toccato l’universo gay, avremmo mai avuto l’esplosione della  disco? Se a un certo punto le culture musicali non si fossero  avvicinate, fuse e contaminate, avremmo mai avuto George Gershwin, Benny Goodman, Beyoncé, i Rolling Stones, gli Specials, i Clash, i Police?

 

 

 

Da questo lungo ed illuminante estratto della Blasi, devo  aggiungere che la contaminazione è qualcosa di veramente fondamentale  per la nostra evoluzione culturale, perché ci permette di sperimentare  un’empatia particolarmente arricchente. In realtà assistiamo ad un  polverone aizzato intorno a questo fenomeno interpretato, soprattutto  dagli Europei, come una manifestazione del senso di colpa dei coloni nei confronti dei colonizzati, nonché della struttura profondamente divisa di molte società che siamo abituati a considerare invece come crocevia di culture. Abbiamo sempre vissuto il melting-pot come qualcosa di lungimirante e inclusivo, dove le diversità venivano  rispettate e vissute nella loro unicità. In realtà si sta trasformando  in qualcosa di diverso dove le minoranze hanno smesso di cercare  l’omologazione, rivendicano la proprietà esclusiva dei loro simboli  culturali.

Ma, perché nasce l’accusa di appropriazione culturale?

In  definitiva, tornando alle nostre trecce, possiamo concludere che esse  sono universali, ma il problema non è nell’arte attuale. Il problema,  secondo una grossa fetta di popolazione nera,  sta nella discriminazione  che le persone di colore hanno dovuto affrontare per essersi pettinati  in determinati stili intrecciati, mentre le donne e gli uomini bianchi  sono celebrati ed emulati quando abbracciano e rivendicano le stesse  identiche acconciature.

A riprova della loro libertà di  indossare liberamente le trecce, i bianchi,  ogni volta che viene  ricordato loro che le trecce non sono causa di appropriazione culturale,  sono soliti argomentare con frasi come “i nostri antenati vichinghi avevano le trecce“.  Si potrebbe stare qui ad aprire una gran discussione in base a ciò che  abbiamo analizzato più su, ma il problema non è propriamente questo.  Quando un bianco/a indossa le treccine non pensa di certo “hmm ho avuto questa idea di stile dai miei antenati vichinghi“, bensì cerca di emulare lo stile diffuso dalla cultura nera sulla nostra società.

Le  donne e gli uomini di origine africana hanno, generalmente, una  struttura dei capelli più crespa, e quindi le trecce sono state  utilizzate per proteggere e mantenere forti i capelli. Ma per centinaia  di anni è stato detto loro che non erano belli, intelligenti o degni e  che la loro cultura non aveva valore. Dopo l’abolizione della schiavitù e  l’inizio della segregazione razziale in America, ai neri è stato detto  che l’unico modo in cui potevano essere riconosciuti, rispettati e  trattati, in modo diverso dai loro antenati ridotti in schiavitù, era  adottatore la cultura e gli standard di bellezza europei. Di  conseguenza, molte persone di colore hanno iniziato a conformarsi alla  cultura occidentale (incluso l’uso di sostanze chimiche aggressive e  dannose nei capelli per lisciarli) per ottenere un buon lavoro, essere  socialmente accettate ed essere trattate alla pari.

Con il  Movimento per i diritti civili, molte persone di colore hanno iniziato  ad abbracciare ancora una volta la propria cultura ed il proprio  patrimonio. I capelli afro diventano una dichiarazione politica e un  simbolo di orgoglio nero, quindi chiamarli “solo un’acconciatura”  è profondamente offensivo. Per anni, le acconciature afro sono state  criticate e condannate e apprezzate solo dopo che le donne bianche le  hanno abbracciate. Queste donne bianche vengono chiamate “pioniere“, “trendy” e “funky”  – parole che non sarebbero mai state usate per descrivere una donna di  colore che indossava i capelli in un modo simile. Invece sarebbe stata  investita da epiteti come “ghetto” o “cricchetto“.  Ci sono stati anche casi di uomini e donne di colore che hanno perso il  lavoro o sono stati cacciati dalle scuole a causa di pregiudizi  negativi e razzismo.

Tutte le minoranze etniche hanno  sopportato i loro abiti culturali e tradizionali, le acconciature e gli  accessori criticati e derisi dall’Occidente, solo fino a quando le  stesse cose sono improvvisamente alla moda e iniziano a spuntare ovunque  sulle passerelle e sulle riviste. I festival musicali sono paradisi per  l’appropriazione culturale, con tatuaggi all’henné, bindi, copricapi e  accessori con piume, trecce e anelli per il naso descritti come “moda da festival”  – tutte cose che a un certo punto sono state criticate dall’Occidente,  sembrando dire che certi vestiti, accessori e acconciature sono  accettabili solo quando si vede una donna bianca che li indossa. Ma  queste cose non sono solo “alla moda“: sono parti  di certe culture che l’Occidente ha cercato di cancellare per anni,  mentre ora tenta di prendersi il merito della loro popolarità improvvisa  e del loro fascino estetico.

La moda è in continua  evoluzione e le sue influenze provengono da tutto. Le trecce di capelli  sono universali e immortali, ma i bianchi dovrebbero essere consapevoli  del motivo per cui alcune persone di colore potrebbero sentirsi  sensibili nei loro confronti e non fingere di essere gli innovatori di  qualcosa che esiste da centinaia di anni e che i loro antenati hanno  provato così tanto e desidero opprimere e cancellare.

 

 

La cultura non è un tratto della personalità. Le donne nere  non possono rimuovere la loro melanina come le donne bianche possono  rimuovere la loro abbronzatura e applicarla solo quando vogliono.

Qual  è la differenza tra una donna bianca e una donna di colore che indossa  le treccine o tra un uomo bianco e un uomo nero che indossa un durag?  Niente, tranne che le donne nere sono chiamate “non professionali” ,  “pacchiane”, sempre arrabbiate e inavvicinabili, per averle indossate,  mentre le donne bianche vengono  viste come trendsetter e innovative. E lo stesso vale per gli uomini con il durag.

La  faccenda non gira nemmeno dall’altra parte, quando si vuol ribattere  che anche stirarsi i capelli è appropriazione culturale. I capelli lisci  sono genetici: non sono un’acconciatura come le treccine o i cornrows,  che hanno un legame storico con una cultura specifica. Quando le donne  nere portano i capelli lisci, non si stanno appropriando della “cultura  bianca”. Stanno partecipando all’assimilazione  culturale per avere la possibilità di essere accettati in una società  gestita prevalentemente da bianchi. Chi accusa di  appropriazione culturale afferma, con vigore, che se si sente il  ​​bisogno di rubare moda e stili dalla cultura nera, come minimo, si  dovrebbe dare credito alle donne nere da cui si sta rubando. Lo stesso  livello di responsabilità dovrebbe essere mantenuto quando altre  comunità minoritarie rubano e si appropriano della cultura nera.  Comunque partecipano all’appropriazione culturale, e non è che cambi  semplicemente perché entrambi i gruppi sono minoranze. La cultura è storica e la gravità dell’azione non cambia in base a chi partecipa all’appropriazione. Se non fa parte della tua cultura, non c’è motivo per usarlo, dicono.

 

 

Personalmente sono dell’idea che si debba guardare oltre,  sempre con rispetto e interessata partecipazione al disagio che un  nostro qualsiasi comportamento, possa urtare la sensibilità altrui.  Secondo me, a tutta questa discussione manca un punto fondamentale. La  cultura è ciò che fai oggi, non ciò che facevano i tuoi antenati in  passato, pur rispettandone tutti i crismi ed il peso della sofferenza  che si portano dietro. La nostra cultura è principalmente  determinata da dove e con chi si vive e da una certa influenza del  proprio background familiare. Il background familiare potrebbe essere  composto da una pluralità di culture e, in un mondo globalizzato come il  nostro, vi possono essere culture naturalmente acquisite e la  possibilità di essere, inevitabilmente contaminati da un mix di civiltà.  L’idea che alle persone dovrebbe essere consentito o meno di indossare  un’acconciatura o un indumento, suonare un tipo di musica o produrre uno  stile artistico basato sui loro antenati è, per non dire altro,  fuorviante e stagnante. E le persone che spingono la  narrativa dell’appropriazione culturale tendono a non avere una  conoscenza effettiva delle origini degli oggetti che affermano  appartengano esclusivamente a loro.

Se le  persone avessero fatto solo ciò che facevano i loro antenati, la specie  umana non sarebbe progredita come, in realtà, è avvenuto. Vivremmo  ancora nell’età della pietra.  E senza la diffusione culturale, la  nostra vita sarebbe molto più opaca e di qualità inferiore. Io sono per  la fluidità culturale, per la condivisione di stati d’animo e di  emozioni che passano anche, e soprattutto, nel modo in cui ci poniamo  verso gli altri. Gli strumenti che abbiamo a disposizione, oggi sono  immensi, e, se indossati o usati con estremo rispetto, trovo sia il modo  migliore per dare massima espressione alla nostra personale libertà.  Abbiamo tutti il diritto di provare nuove esperienze, che eludano dalla  gabbia più o meno dorata in cui siamo cresciuti. E non c’è bisogno di  portarsi dietro tutto un immenso bagaglio storico che impedisce di dar  libertà al nostro modo di essere, se lo facciamo con consapevolezza e  profondo ossequio.

 

 

 

Wizzy!

Biracial, Bicultural, Mixed & Matched with an Italian and Nigerian Heritage. Sono  un’imprenditrice seriale, multidimensionale e poliedrica,  con molti  interessi e innumerevoli passioni. Non sono programmata per fare solo  una cosa nella vita. Ho una formazione di Antropologia Biologica, Co-Fondatrice e CVO di DOLOMITES AGGREGATES LINK NIG. LTD, investitrice, ricercatrice freelance di studi, cultura, tradizione e patrimonio africani, e fondatrice di Métissage Sangue Misto,  WebMag  e Lounge Community riservata. Oltre all’Azienda Mineraria, mi occupo di Consulenza sulla Diversità Culturale e Developmental Mentoring, sviluppando programmi di mentoring one-to-one, tagliati su misura per singoli individui, Istituzioni Scolastiche, Organizzazioni Multiculturali e Aziende.

 

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