Conobbi Joshua, qualche anno fa, in uno dei suoi viaggi scapestrati in tutto il mondo. Lo ritrovai, un paio di mesi fa, in uno degli incisivi video di Wode Maya, un giovane vlogger freelance ghanese, la cui missione è quello di cambiare le narrazioni negative del Continente africano, promuovendo, nel mondo, tutti i 54 paesi africani in modo positivo. Dice, infatti, che la storia sulla grandezza ha sempre glorificato gli imperialisti in una visione di un Africa raccontata in modo distorto. Ora, tramite i suoi servizi volg, finalmente, la narrazione sta cambiando e la storia dell’Africa è raccontata dagli africani! Invita gli africani ad unirsi e ad abbracciare la propria cultura e l’orgoglio delle proprie radici, raccontando le loro storie.
JOSHUA KWAKU ASIEDU, mixed italo-ghanese, è nato e cresciuto in Italia e, dopo un lungo viaggio alla ricerca delle sue radici, finalmente, ha trovato la sua dimensione, il suo mondo.
Tutto il è iniziato quando ha deciso di lasciare radicalmente l’Italia per fare il globe-trotter e lo racconta così:
“Venivo da una provincia vicino a Milano e decisi di partire. Andai in Grecia. Sono stato lì per tre mesi e poi sono andato a Londra. Londra era molto interessante perché era una perfetta rappresentazione della vita cosmopolita e del luogo consumistico capitalista. Poi ho sentito parlare degli indigeni dell’Australia e sono andato a Brisbane, in Australia. Ho lavorato in un ristorante e ho cambiato spesso lavoro. Poi finalmente sono finito in un caseificio. ”
Nei suoi numerosi viaggi alla ricerca di una connessione con l’umanità e le sue radici, c’era un posto che faceva per lui, ed era quello che esattamente cercava.
“C’è stata un’esperienza che alla fine ha plasmato la mia visione che mi ha portato dove sono ora; quando sono andato nel Northern Territory. Il Northern Territory è una regione dell’Australia in cui tutti gli Aborigeni sono stati relegati. È un ambiente molto difficile. ”
Infatti, nel maggio del 1967, alla popolazione australiana venne offerta un’opportunità storica: eliminare, con una semplice crocetta, i due articoli della Costituzione che ancora negavano agli aborigeni la piena cittadinanza.
Nei primi decenni del ventesimo secolo, quasi tutti gli Stati australiani adottarono legislazioni draconiane, ufficialmente mirate a proteggere gli indigeni, in realtà ispirate dal desiderio di segregarli più efficacemente. In molti vennero costretti a vivere in riserve, amministrate da missionari o da ufficiali statali. Trattati come bambini, ai confinati venne tolta la libertà di movimento. La loro posta veniva controllata dalle autorità, che gestivano anche i salari delle donne impiegate come domestiche nelle famiglie bianche e quelli degli uomini impegnati nella pastorizia. Bisognava rivolgersi al direttore della riserva anche per ricevere il permesso di visitare un parente o per sposarsi.
Ma tra i tanti poteri sulla vita privata degli aborigeni che la legge affidava agli Stati, il più odioso era probabilmente quello di rimuovere forzatamente i bambini indigeni dalle loro famiglie. Questi provvedimenti hanno accompagnato la colonizzazione australiana sin dalle origini. Tuttavia, fu solo negli anni Trenta del ventesimo secolo che molti Stati adottarono politiche sistematiche di allontanamento dei bambini nati da padre bianco e madre aborigena. In quegli anni, per la prima volta si cominciò a notare un’inversione di tendenza nella situazione demografica degli indigeni. Il loro numero era in evidente crescita, soprattutto nelle riserve amministrate da missionari cristiani, dove le cure sanitarie e le opportunità scolastiche e lavorative erano generalmente migliori di quelle disponibili negli insediamenti statali.
Ad aumentare però erano soprattutto i bambini cosiddetti “mezzosangue“. La loro stessa esistenza era uno scandalo, perché metteva a nudo uno dei tabù più protetti della società australiana, ossia la frequenza delle unioni sessuali inter-razziali. A turbare una nazione permeata dalle teorie razzistiche allora in voga era anche la vista di bambini con sangue bianco condannati a crescere nel degrado e nello squallore di una razza inferiore. Occorreva, per il loro bene, affidarli a rispettabili famiglie bianche o farli crescere in apposite istituzioni caritatevoli. Il risultato di queste politiche fu quello di aprire una ferita che non si è ancora rimarginata del tutto, e le cui implicazioni sono state comprese dalla maggior parte degli australiani solo nell’ultimo decennio. Per lottare contro queste ingiustizie, già negli anni Trenta alcuni aborigeni, spesso educati nelle missioni cristiane, cominciarono a fondare associazioni nelle città.
Solo dopo il ’45 il crollo delle teorie razzistiche, la diffusione della cultura dei diritti umani e il processo di decolonizzazione crearono le condizioni propizie perché il dramma degli aborigeni venisse preso in maggiore considerazione. Davanti a un’opinione pubblica internazionale sempre più sensibile alle discriminazioni razziali, divenne indifendibile l’ipocrisia di una nazione che giudicava gli aborigeni adatti a combattere e a morire in tutti e due i conflitti mondiali, ma inadatti a votare per il governo del proprio Paese o a godere dei comuni diritti di cittadinanza. Ispirate dalle campagne internazionali contro l’apartheid e dalla lotta per i diritti civili degli afro-americani, le organizzazioni pro-aborigeni divennero più dinamiche e negli anni Sessanta raggiunsero importanti risultati.
La risposta al referendum fu straordinaria: il 90,2 per cento dei votanti appoggiarono la proposta abrogativa. Ma il traguardo della piena uguaglianza rimane lontano: l’apartheid ha lasciato in eredità esclusione e piaghe sociali, mentre tra i nativi domina ancora una mentalità passiva e fatalista. Oggi la minoranza, afflitta da alcolismo, disoccupazione e violenza, fatica a trovare un suo ruolo nella società. Le speranze del 1967 hanno dato il via a tanti atti simbolici, ma finora mancano risultati concreti.
Fu così, tra gli aborigeni dell’Australia, che Joshua imparò una lezione molto preziosa.
“Questo tipo di vita porta connessioni ovunque e rende un individuo, credo, più amabile. In tutti i posti in cui sono stato nel mondo, più diventavo rurale, più semplice diventavo e più le persone erano adorabili e accoglienti “.
I suoi viaggi lo hanno poi portato negli Stati Uniti dove è diventato esperto di arti marziali miste (MMA), debuttando e vincendo il suo primo incontro a Las Vegas. Realizzò, però, subito, che ciò non soddisfaceva il suo obiettivo di vita; lasciò, quindi, la MMA per continuare la sua ricerca che lo portò, nella culla dell’umanità, in Africa, e più specificamente, in Ghana, da dove provenivano i suoi antenati e dove ereditò delle terre dal suo bisnonno.
“Ciò che mi ha fatto restare in Ghana è stato l’essere entrato in contatto con un modo di vivere più rurale e naturale. Un modo di vivere più semplice dell’ambiente occidentale (Italiano) dove sono cresciuto; un ambiente che non era propriamente adatto a me; un ambiente che era più verso un modo di essere materialista e superficiale. Ricollegarmi alla natura è sempre stato ciò per cui sono sempre stato chiamato al punto che ho deciso di tornare alle radici e quale posto migliore per radicarmi della terra che ha dato i natali a se stessa, Madre Africa “.
Vivere nella foresta, fuori dalla rete del sistema elettrico e dell’acqua – dice – è difficile, ma ciò che lo fa andare avanti è anche il suo obiettivo di costruire un eco-villaggio. Un eco-villaggio in cui spera che molti affluiranno, per sperimentare la vita semplice. Di tanto in tanto riceve anche aiuto.
“Sono stato qui quasi sempre da solo e non è facile, principalmente a causa dei molti compiti che devo svolgere durante la giornata, tutti i giorni. Ma ci sono alcuni abitanti dei villaggi vicini, che vengono ad aiutarmi, mentre altre vengono a godersi alcuni tornei sportivi con i vari campi che abbiamo qui. Abbiamo campo per la pallavolo, uno per il tiro con l’arco e uno di basket, realizzato con una combinazione di assi di legno, per il tabellone, e un cesto intrecciato per il cerchio. Quindi non è assoluta la mia solitudine, ma la maggior parte del mio tempo sono qui da solo. Mi sento così privilegiato di essere collegato direttamente al continente e a questa bellissima area, in Ghana, che è tremendamente ricca di risorse. Non solo nel cibo, ma anche nei minerali e qualsiasi cosa pensiamo possa creare il nostro modo di vivere lussuoso che in realtà proviene dalla terra“.
Joshua crede nell’essere un uno con le radici dell’umanità e come tale cerca di scoprire perché e come le cose, che diamo per scontate, arrivino nella nostra esistenza. Fa le domande che la maggior parte delle persone non penserebbe mai di porsi.
“Tutte le cose belle che abbiamo dall’altra parte dell’oceano provengono principalmente dalle risorse della terra. Non solo dalle risorse naturali ma anche dalle persone, dal lavoro e da ogni piccolo oggetto, c’è una storia dietro. Spesso non ci chiediamo qual è la storia. È lo stesso con il cacao, per esempio, qual è la storia dietro una barretta di cioccolato? ”
E anche se le storie che ci vengono raccontate quando poniamo queste domande intrinseche non sono tutte positive, Joshua dice che chiedere ti dà l’opportunità di imparare qualcosa di nuovo su come è stata vissuta la vita.
“Le storie non sono sempre belle. La maggior parte delle storie sono fatte di sfruttamento e, per nulla, etiche. Ma bisogna capire che lo stile di vita qui, è una stretta conseguenza della colonizzazione, perché la colonizzazione è ciò che ha portato la globalizzazione e la globalizzazione era un’azione necessaria dagli europei di quei giorni “.
Per lui, vivere fuori dalle comodità è sì, una scelta radicale, ma è anche esattamente dove vuole essere ed è tutt’altro che solitario.
Conclude dicendo: Sentirsi soli è un concetto. Non mi vedo come un individuo, sono il risultato di tutto; dell’aria che respiro, una parte delle piante intorno alle quali cammino, del suolo su cui calpesto. Senza di esso non sarei me stesso. Queste pandemie e questi blocchi mi hanno fatto capire ancora di più quanto questo posto non sia solo un luogo per ritiri, ma un luogo dove rivivere. Ho deciso di costruire una casa e ho deciso di farlo nello stesso modo in cui facevano i miei antenati: usando le risorse naturali locali. Grazie alle mie diverse esperienze, vivendo all’interno di alcune comunità indigene in tutto il mondo, ho acquisito un po’ di conoscenza sulla costruzione, principalmente con ciò che la natura offre localmente. Eppure questo è un lavoro su scala leggermente diversa.
Sto costruendo una casa che resista non solo durante la mia vita, ma, alla fine, anche per la prossima generazione. Una casa di fango locale, può durare per più di 200 anni. Sfortunatamente, questi antichi modi di costruire vengono lentamente lasciati indietro dalla comunità indigena locale, superata da questa costante occidentalizzazione. Pertanto, trovare qualcuno che conservi l’Antica conoscenza per creare in modo sicuro, corretto e forte un’arte del genere, non è stato facile. Mi sono avvalso della competenza di Da Mensa , un uomo di oltre 60 anni, uno dei pochi che conserva ancora tale saggezza. Insieme abbiamo progettato la struttura, scelto le risorse disponibili e più convenienti, adattato alle condizioni meteorologiche e iniziato a costruire. Il processo è un enorme processo di apprendimento, soprattutto dalla conoscenza, dagli approcci e dall’occhio speciale di da Mensa. Le sfide sono tante: il tempo, la logistica, lo sforzo fisico / mentale, i vari dettagli tecnici e le sfide portate dalla mia personalità e dalla personalità di Da Mensa ,che, spesso, si infrangono nel mezzo, fino a sciogliersi in un bel punto centrale di comprensione. Da Mensa, recentemente, a causa di un calcolo affrettato, ha commesso un errore rilevante con il tetto: l’acqua ha iniziato a fuoriuscire.
“L’errore è umano, ho fatto un errore! Senza errore non può venire una nuova mente per trovare una soluzione. Quindi troviamo una soluzione ” – mi disse.
In effetti, se non vi è attrito, non vi può essere apprendimento né crescita. Quindi teniamo duro e facciamo due passi avanti, uno indietro, ma lentamente, inesorabilmente, ci stiamo arrivando.
La struttura imminente verrà utilizzata anche per ospitare il prossimo PROGRAMMA DI RITIRO che, molto probabilmente si svolgerà entro la fine dell’anno. Quindi un’esperienza tutta nuova sarà data a coloro che entreranno magicamente in questa terra antica.
Tanta saggezza e tanta convinzione l’ho trovata solo dalla generazione precedente alla mia e tra i villaggi della mia terra materna, dove non ci si è ancora stancati di fare domande e trovare soluzioni con quello che abbiamo a disposizione. Questo ragazzo è molto giovane, ma ha accumulato tanta esperienza su quello che è la connessione con la terra ed il senso di universalità. E’ qualcosa di veramente auspicabile per le future generazioni. Mia figlia Zandalee ha già espresso il desiderio di sperimentare un periodo in un luogo così, ben lontano da quello delle nostre case nei villaggi, dove la tecnologia ha preso il sopravvento. Ed io sono molto favorevole. Sarà il suo prossimo regalo di viaggio.
E voi? Riuscite a rivalutare tutte le vostre certezze e agi?
@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy , MBA Metissage & Métissage SangueMisto.