Vengo da una cultura che nasce da anni di “appropriazione” come si chiamerebbe oggi. Il modo in cui comprendo la mia esistenza racchiude così tante influenze del mondo, perché sono vissuta immersa in una miriade di tradizioni, usanze e culture, grandi e piccole, da tutto il mondo.
I miei migliori amici, oltre che Nigeriani, erano/sono Indiani, Libanesi, Egiziani, Sud Africani, Giapponesi, Americani, Europei e dai Caraibi (in particolare dalle Grandi Antille – Giamaica, Cuba e Haiti – e dall’Arcipelago delle Bahama) . Questi ultimi, al centro delle moderne contese tra schiavitù e libertà, razzismo e uguaglianza, impero e indipendenza, mi hanno insegnato molto sul senso del “ritorno alle radici” alla ricerca della propria storia famigliare di migranti sradicati e ruzzolati fino alle coste del nuovo mondo. Fenomeno che negli anni ’20 agitò l’ America nera tutta (da Nord a Sud), sotto la guida di Marcus Garvey e la sua Universal Negro Improvement Association and African Communities League (acronimo inglese UNIA-ACL o semplicemente UNIA).
Per decenni, ho vissuto una vita immersa in contaminazioni dalle sfumature più disparate e nessuno, dico nessuno, si è mai sognato di sollevare alcun tipo di problema o patemi d’animo, se non quello di godere degli scambi e appropriazioni culturali storiche, che si sono tradotti in una nuova tradizione culturale vibrante e forgiata sotto l’effige del multiculturalismo. Per me è alquanto difficile sottoscrivere una visione del tutto negazionista rispetto all’appropriazione culturale, ed il fatto di appartenere a due culture molto distinte tra loro, mi ha, invece, permesso di capire due cose cruciali che molti “gendarmi” dell’appropriazione non riescono a riconoscere:
- Molti elementi della cultura e della religione non appartengono esclusivamente a un gruppo
- C’è una vera differenza tra appropriazione e apprezzamento.
Ma andiamo con molto ordine. Cerco, per lo meno, di fare un po’ di chiarezza su un discorso molto complesso, non certo esauribile in questo pezzo. Il dibattito intorno all’appropriazione culturale, negli ultimi anni, si è fatto sempre più acceso, arrivando a turbare anche l’Italia, dove incontra una certa resistenza. Ne abbiamo parlato molto anche nei nostri incontri del Club Métissagers, che avviene ogni Mercoledì sera su ClubHouse, spazio in cui affrontiamo una serie di argomenti e problematiche che riguardano il mondo Mixed/Black. La confusione intorno a questo concetto dipende da vari fattori: la sua definizione non sempre chiara, le differenze tra il nostro contesto culturale e quello anglosassone, dove il termine è stato concepito, e non ultima la complessità delle dinamiche socio-politiche, che rende impossibile la determinazione di un approccio valido in qualunque situazione. Tutto ciò ha creato molti pareri discordanti sul tema: c’è chi, sull’onda del politically correct, ritiene che la cultura bianca sia fondata sul furto ad altre culture, prendendosene i meriti e discriminando i titolari, e c’è chi crede invece che l’appropriazione culturale sia cosa inevitabile dal momento che la nostra società è ormai un crogiuolo di razze, una commistione di culture ed etnie di tutti i tipi e di ogni provenienza.
Ciò che realmente viene messo in discussione, però, non è il semplice appropriarsi di un oggetto, ma l’appropriarsene senza capirne il significato intrinseco e senza farsi lo scrupolo a offendere gli appartenenti alla cultura di origine dell’oggetto in questione. Il semplificarlo, il ridurlo a un mero mezzo per il raggiungimento di uno scopo che non ha nulla a che vedere con la sua utilità originaria. È il trasformare una tradizione culturale, con una propria storia (spesso antichissima), in una tendenza “cool”, per poi passare alla successiva e così via.
Partiamo da un po’ di Storia.
L’appropriazione culturale è un argomento di studio accademico relativamente recente. Il termine è emerso negli anni ’80, nelle discussioni sulle critiche postcoloniali all’espansionismo occidentale, sebbene il concetto fosse stato esplorato in precedenza, come in “Alcune osservazioni generali sui problemi del colonialismo culturale” di Kenneth Coutts-Smith, nel 1976.
Prima di allora si parlava di diffusione culturale, coniata dall’antropologo culturale Edward Tylor, alla fine del 19 secolo, il quale lo descrive come il processo umano di trasferire elementi di cultura tra le società. Secondo Tylor, ciò avviene attraverso tre meccanismi:
- Diffusione Diretta: quando due culture sono geograficamente vicine l’un l’altro, dando luogo a matrimoni misti, scambi e persino conflitti. Ad esempio, lo scambio di cultura, arte, musica lingua e cibo tra gli Stati Uniti e il Messico.
- Diffusione Forzata: quando una cultura soggioga un’altra e impone le proprie usanze al popolo conquistato. Per esempio, colonizzatori che costringono le popolazioni indigene ad adottare la loro religione.
- Diffusione indiretta: quando i tratti vengono trasmessi da una cultura ad un’altra, senza che la prima e l’ultima siano a diretto contatto tra loro. Un esempio potrebbe essere la presenza della pizza in Indonesia, influenzata dai media globali e dal mercato creato da turisti e trapianti dal Nord America e dall’Europa.
Kenneth Coutts-Smith , poi, adottò un punto di vista marxista di “appropriazione di classe“, sottolineando che il concetto di l’appropriazione culturale derivava dal potere esistente e storicamente contestualizzato di relazioni, e quindi lanciò una sfida per interpretare il paradigma dell’arte come “extra-storica”, considerandolo alla base dell'”eurocentricità” e dei presupposti critici della maggior parte dei contemporanei dell’arte, classificandolo come una chiara caratteristica del “colonialismo culturale”. Coutte-Smith ammette abbastanza chiaramente che “Il problema non risiede solo principalmente nel Terzo Mondo emergente paesi, ma ovunque. Un’area cruciale, ad esempio, si trova nella politica chiara del genocidio culturale attraverso l’assimilazione che è attualmente praticato nel Nord America (e altrove per quanto riguarda i popoli indigeni)“.
Dagli anni ’80 in poi, il termine prese sempre più piede in America, con diverse sfumature di significato; tra i primi precisi riferimenti all’appropriazione culturale, possiamo trovare il libro di Dick Hebdige, ” Subculture: The Meaning of Style” (1979), dove esamina come le sottoculture bianche in UK, costruiscano uno stile, come forma simbolica di resistenza, per rafforzare l’identità comunitaria e come prendano in prestito simboli culturali o rivoluzionari di altri gruppi emarginati, in particolare dei gruppi che hanno ancora meno potere sociale e economico (per esempio lo stile “punk” preso in prestito pesantemente dalla cultura rastafariana e dall’abbigliamento operaio). Sosteneva che una sottocultura è un sovvertimento alla normalità e che possono essere percepite come negative a causa della loro natura critica verso lo standard sociale dominante. La sottocultura, secondo Hebdige, riunisce individui che la pensano allo stesso modo e che si sentono trascurati dagli standard sociali, consentendo loro di sviluppare un senso di identità.
Il teorico culturale e razziale americano, George Lipsitz, coniò il termine generico “antiessenzialismo strategico” per riferirsi all’uso calcolato di una forma culturale, al di fuori della propria, per definire se stessi o il proprio gruppo. L’anti-essenzialismo strategico, a differenza dell’appropriazione culturale, può essere praticato sia nelle culture minoritarie che in quelle maggioritarie, e non si limita solo all’uso dell’altro. Tuttavia, sostiene Lipsitz, quando la cultura maggioritaria tenta di anti-essenzializzarsi strategicamente appropriandosi di una cultura minoritaria, deve prestare molta attenzione a riconoscere le specifiche circostanze storico-sociali e il significato di queste forme culturali in modo da non perpetuare la maggioranza già esistente vs. minoranze ineguali rapporti di potere. Esso diventa appropriazione culturale, solo quando un elemento di cultura è adottato da un gruppo emarginato, senza rispetto per la cultura stessa o per il significato che porta con sé, o, ancora, con lo scopo di sfruttare la cultura per guadagno economico o sociale.
Comprendiamo L’appropriazione Culturale.
Il concetto di appropriazione culturale è stato discusso e dibattuto in qualche forma per oltre un secolo, ma il termine e il nostro esame contemporaneo delle questioni ad esso collegate, è giunto a risalto alla fine del XX secolo, insieme alle conversazioni su globalismo, multiculturalismo e prospettive intersezionali sulla razza, classe e genere. In particolare, quello di appropriazione culturale è un concetto che nasce in ambito accademico, più precisamente negli Stati Uniti, e si è diffuso in tutto il mondo, finendo al centro di sempre più numerose controversie negli ultimi anni. Un fenomeno che ha reso possibile la pratica dell’appropriazione culturale – amplificandola – è la globalizzazione, intesa come il processo secondo cui le persone e le organizzazioni aumentano le interazioni internazionali, in particolare grazie alla comunicazione e informazione tecnologica e digitale e ai commerci. Può capitare spesso di fraintendere la globalizzazione, poiché alcuni sostengono che essa condurrà alla formazione di una singola cultura, cancellandone le differenze esistenti, ma in realtà ha permesso che elementi tradizionali di molte culture di tutto il mondo potessero essere conosciuti e persino usati da altre, principalmente da quella occidentale: infatti, storicamente, l’imperialismo dell’Occidente è stato predominante dal punto di vista culturale. Perciò non è incomprensibile che un’associazione tra appropriazione culturale e globalizzazione possa non essere vista di buon occhio, quando, ancora oggi, si parla di White Privilege e Black Lives Matter.
Sappiamo che la cultura è formata da strati: quelli esterni, i più visibili, identificati con i simboli, i rituali e gli eroi e, di solito, sono più facilmente plasmabili proprio perché intaccati dalla globalizzazione (ne sono un esempio i vestiti, le abitudini alimentari e la musica); e quelli interni (il cuore), costituiti dal set di valori, non scritti, che determinano i comportamenti di una certa comunità. Questi valori sono molto resistenti, ed è più difficile cambiarli, mantenendo, in questo modo, intatto lo spirito della cultura di riferimento: un americano e un giapponese probabilmente indosseranno lo stesso paio di jeans e guarderanno lo stesso film. L’americano mangerà sushi e il giapponese un hamburger, ma il valore alla base della loro cultura di provenienza sarà ben diverso poiché l’americano avrà, ad esempio, una visione del mondo individualista, il giapponese al contrario molto più legata alla collettività. Bisogna dunque cercare di comprendere se la globalizzazione riuscirà ad intaccare anche il cuore della cultura, o rimarrà soltanto negli strati più superficiali.
Secondo il dizionario Oxford, l’appropriazione culturale è definito come “L’adozione non riconosciuta o inappropriata di tradizioni, pratiche, idee, ecc di una persona o società da parte di membri di un altro popolo o un’altra società, e tipicamente più dominante.” Possiamo quindi comprendere come, presa di per sé, è una pratica del tutto innocua. Ciò che cambia drasticamente la sua condizione è l’uso che se ne fa – o, meglio, la consapevolezza che gli si dà. Una visione più approfondita rivela che essa si rifà anche ad una particolare dinamica di potere nella quale una cultura risulta maggiormente “dominante” rispetto all’altra, ed è perciò diversa da uno scambio culturale, quando le persone condividono vicendevolmente uno o più aspetti del proprio bagaglio culturale e all’interno del quale si nota l’assenza di una sensazione di dominio.
Infatti, Società dominanti si impadroniscono spessissimo di aspetti delle culture minoritarie e ne traggono profitto, modificando manufatti, le tradizioni o le pratiche per renderli più accettabili per il nuovo mercato, e nel processo, sono disconnessi dagli artisti e dalle comunità che li hanno originati e dal significato culturale che un tempo avevano. Lo scambio culturale, invece, avviene quando usanze, credenze, arte e cultura vengono condivise da tutti e tra le comunità con profondo rispetto ed apprezzamento. Un esempio di ciò è l’adozione del Blues e del Rock-n-Roll dei musicisti bianchi negli anni ’30 – ’70. Nell’assumere queste tradizioni musicali, gli artisti bianchi hanno reso accessibili queste forme di musica nera, un tempo tabù per il pubblico bianco, specialmente in un’America ancora segregata, e molti divennero ricchi e famosi nel processo. Mentre gli artisti neri erano, alla fine, in grado di ottenere anche un qualche livello di successo, produttori, dirigenti e artisti bianchi, ne hanno beneficiato in modo sproporzionato. Oggi, il Rock-n-Roll, è identificato, in modo sproporzionato, come White Culture. O, ancora, appropriazione culturale è ciò che avviene, per esempio, quando indossiamo costumi tipici di una cultura che non sia la nostra per acquistare un fascino “esotico” oppure ci tatuiamo simboli religiosi, svuotandoli completamente del loro valore simbolico solo per apparire più trendy ed enigmatici.
L’appropriazione culturale non è quindi una, fluidità culturale, intesa come la capacità di far scivolare i confini tra le culture grazie e a causa delle forze e le influenze che trasformano continuamente e progressivamente i contatti tra i popoli. Non sempre si condividono gli elementi di una determinata cultura con coscienza e con i giusti intenti, e la linea tra appropriazione lecita ed illecita diviene molto labile. Ciò che rende chiara la linea di demarcazione è il contesto.
Susan Scafidi, professoressa di legge a Fordham, grande studiosa sull’appropriazione culturale e sulla storia giuridica etnografica, autrice del libro “Who Owns Culture?”, uno studio sull’identità culturale nel mercato contemporaneo, definisce l’appropriazione culturale come “l’atto di prendere proprietà intellettuali, sapienze tradizionali, espressioni culturali o manufatti dalla cultura altrui senza permesso“. Praticamente ne parla come di furto di proprietà intellettuale. Questa pratica, secondo lei, diventa problematica nel momento in cui tra cultura appropriata e appropriatrice c’è uno squilibrio di potere: o meglio, parliamo di appropriazione, specificatamente, quando membri di una comunità dominante sfruttano a proprio piacimento elementi di una cultura minoritaria, senza che a quest’ultima venga dato credito o ne tragga alcun beneficio. Per Scafidi, il tema dell’appropriazione culturale nasce dall’interesse per forme di creatività (soprattutto nella moda), che la legge non protegge e per i valori impliciti in questo status, in contrasto con l’attenzione di altri accademici su lavori con un’ampia e crescente protezione della proprietà intellettuale. Se può sembrare una questione di puro orgoglio intellettuale, le ripercussioni sono estremamente concrete.
L’appropriazione culturale diventa negativa quando viene estrapolata dal contesto e misinterpretata. A volte la scelta di utilizzo può essere innocuo, ma il più delle volte, vengono considerate forme irrispettose verso la cultura di una minoranza. Prendiamo per esempio gli Stati Uniti, dove il razzismo sistemico continua a svantaggiare le persone nere rispetto a quelle bianche. I capelli afro hanno una texture diversa da quella tipicamente caucasica, quindi anche le cure che necessitano sono diverse: vengono usati ciò che comunemente viene definito protective hairstyles (per esempio le treccine o i cornrows braids) e che servono, specificatamente, a proteggere questo tipo di capello. Consideriamo anche il fatto che negli Stati Uniti una persona nera può perdere il lavoro o non essere accettata a scuola con la scusa di quelle treccine. Secondo voi, come si sente, quando scopre che le stesse treccine sono state indossate da Kim Kardashian, e su di lei vengono ammirate, ritenute avanguardistiche, ritratte su copertine d’alta moda e rinominate box braids, come se prima non fossero mai esistite?
Qui l’appropriazione è chiara: una donna considerata bianca (in realtà è Mixed, Armena, Scozzese, Irlandese, Olandese e Inglese), quindi parte della comunità dominante negli Stati Uniti, ha tratto profitto economico e fama da un’acconciatura tipica della comunità nera, una minoranza, i cui membri non solo non hanno percepito alcun effetto benefico, ma continueranno ad essere attivamente discriminati – proprio dai bianchi che avevano lodato Kim – per quella stessa acconciatura. Si potrebbe obbiettare che anche le persone provenienti da minoranze assumano aspetti della cultura dominante: restando negli Stati Uniti, una donna nera potrebbe preferire lisciarsi i capelli che farsi i dreadlocs. Questo non cambia le dinamiche di potere alla base: la comunità nera resta subalterna a quella bianca. Semmai, le minoranze possono essere portate ad adeguarsi alla cultura dominante come forma di sopravvivenza: è un aspetto dell’assimilazione culturale. Una donna nera con dreadlocks sarà quasi sicuramente percepita come meno professionale di una con capelli lisci: la scelta, quindi, è tra tenersi i locks e guadagnarsi da vivere.
Mentre l’appropriazione è unidirezionale e implica una comunità dominante sull’altra, lo scambio culturale le vede allo stesso livello ed è reciproco, grazie a rapporti presumibilmente lunghi nel tempo. In Occidente leggiamo manga ben sapendo che siano un prodotto giapponese, così come in Asia il rap sta diventando sempre più popolare conoscendone la genesi statunitense. Ma può anche accadere che il rapporto, pur rispettoso, resti unidirezionale. In questo caso il termine più corretto è apprezzamento culturale: una partecipazione a costumi altrui rispettandone l’origine e spesso con il benestare di membri della cultura in questione. Un esempio classico sono i matrimoni misti, in cui un coniuge si adegua alle cerimonie tradizionali dell’altro. Sebbene foneticamente simili, dunque, apprezzamento (o scambio), assimilazione e appropriazione culturale sono concetti molto diversi tra loro. Ma che su suolo italiano, che ha visto mescolarsi influssi arabi, greci, spagnoli, francesi e longobardi, faticano ad attecchire. Perché sono stati gli anglosassoni a sentire il bisogno di coniare questi termini?
Prima di procedere e approfondire meglio la questione, è bene sincerarmi che vi sia ben chiara la distinzione tra le tre forme di interazione con le diverse culture, che qui cerco di riassumere brevemente il significato di ogni attribuzione.
Apprezzamento o Scambio Culturale: L’apprezzamento culturale è un po’ più complicato da definire, poiché, probabilmente, è qualcosa che accade naturalmente quando viene stimolato dalla curiosità o in risposta a un’esperienza specifica. Possiamo dire che è un’apertura mentale, un interesse genuino e un rispetto verso le altre culture e religioni. Si intende semplicemente riconoscere, anche con entusiasmo, giudicare positivamente forme culturali antropologiche differenti dalle proprie, al fine di studio, documentazione, divulgazione. L’apprezzamento implica un desiderio di conoscenza e una comprensione più profonda di una cultura. Le persone che vogliono veramente apprezzare una cultura offrono rispetto ai membri di quella cultura e alle loro tradizioni partecipando solo quando sono invitati a farlo. L’apprezzamento offre l’opportunità di condividere idee e consapevolezza culturale. Se, per esempio, acquisti opere d’arte, vestiti o altri oggetti, acquisti direttamente dai creatori. Inoltre, ti prendi il tempo per imparare il significato dietro l’oggetto e come dovrebbe o non dovrebbe essere usato. Così come se acquisti un set di bacchette con cui mangiare. E’ perfettamente accettabile. Usare quelle stesse bacchette come accessorio per capelli non lo è. Mentre l’appropriazione assomiglia più alla totale cooptazione di simboli e rituali da parte di persone non cresciute in quel contesto culturale, l’apprezzamento significa semplicemente esprimere la volontà di apprendere e ammirare un’altra cultura senza confronti e contrasti. Rischiamo di sconfinare in un territorio di appropriazione quando applichiamo il nostro insieme di standard e norme culturali a un altro. Anche se potremmo non attribuire molto significato a come indossiamo cappelli o tatuaggi in America, ad esempio, ciò non significa che possiamo indossare i simboli di un’altra cultura sui nostri corpi solo perché ammiriamo l’aspetto, non importa quanto ammiriamo l’aspetto.
Come praticare l’apprezzamento culturale (e non l’appropriazione) durante il viaggio
Quando viaggi, possono sorgere situazioni del mondo reale in cui vorrai interagire con la cultura di un’altra comunità: questo è quando è fondamentale sapere se stai apprezzando o appropriandoti. Quindi, prima di indossare un dashiki, intrecciare i capelli o decorare le mani con l’henné, poniti alcune domande guida:
- Comprendo il significato di questo abbigliamento/tradizione/consuetudine?
- Sto onorando questa cultura o semplicemente la sto imitando?
- La mia partecipazione si tradurrà in uno scambio culturale o perpetuerà stereotipi e danneggerà le persone che appartengono a questa cultura?
- Lo sto facendo come un’opportunità personale per interagire e sperimentare un’altra cultura, o lo sto facendo per la foto che posterò su Instagram in seguito?
Viaggiare significa interagire con persone di altre culture, ascoltare le loro storie, imparare la loro lingua, comprendere le loro tradizioni e scambiare aspetti inestimabili di ciò che significa essere un cittadino globale. Ricordati che se abbracci un’altra comunità con rispetto per le sue tradizioni, storia e cultura – e rimani consapevole del tuo privilegio e delle tue intenzioni – potrai diventare un viaggiatore più consapevole e compassionevole.
Assimilazione Culturale: è un processo attraverso il quale una persona o un gruppo di una cultura arriva ad adottare le pratiche e i valori di un’altra cultura, imponendo la totale rinuncia della cultura di origine e le sue tradizioni, in favore di una completa fusione con quella ospitante. Questo processo è più comunemente discusso riguardo a una cultura minoritaria che adotta elementi della cultura maggioritaria, come è tipicamente il caso dei gruppi di immigrati che sono culturalmente o etnicamente distinti dalla maggioranza nel luogo in cui sono immigrati e che cercano di fondersi con il tessuto sociale esistente. Il processo può essere rapido o graduale, svolgendosi nel corso degli anni, a seconda del contesto e delle circostanze. Considera, ad esempio, come un Italo – Nigeriano di terza generazione, cresciuto a Biella, differisca culturalmente da un Nigeriano che vive nelle zone rurali della Nigeria.
Questa strategia viene utilizzata quando si attribuisce poca o nessuna importanza al mantenimento della cultura originale e grande importanza viene attribuita all’adattamento e allo sviluppo di relazioni con la nuova cultura. Il risultato è che la persona o il gruppo è, alla fine, culturalmente indistinguibile dalla cultura in cui si sono assimilati. È probabile che questo tipo di acculturazione si verifichi nelle società che sono considerate crogioli, in cui vengono assorbiti nuovi membri. Da distinguere dal termine Integrazione che riconoscerebbe un valore nelle diverse culture e facendo tesoro di quella diversità pone maggiore responsabilità di coesione al Paese di arrivo, il quale dovrà creare gli strumenti e le condizioni attraverso le quali, la diversità possa mantenere quelle espressioni che la caratterizzano, al fine di arricchire proprio la stessa Società accogliente. Diversamente detto, con l’assimilazione tutto il lavoro spetterebbe all’ospite, mentre con l’integrazione, al Paese che ospita.
Appropriazione Culturale: per definizione si tratta dell’adozione da parte di una cultura di simboli o usanze appartenenti a un’altra, di solito minoritaria: i simboli vengono de-valorizzati e de-contestualizzati, causando una perdita nel patrimonio culturale della seconda. Se il tuo uso di oggetti o pratiche culturali sfrutta quella cultura in qualche modo, te ne stai appropriando, che tu te ne renda conto o meno. Indicatori di appropriazione includono la presentazione di elementi di una cultura in modi che danno una prospettiva distorta o imprecisa di quella cultura, rafforzare gli stereotipi, producono conflitti con l’uso previsto di tali elementi e prendono credito o compenso dai creatori originali. Se, per esempio, appendi sul letto un acchiappasogni (peraltro, giusto per la cronaca, erano in realtà appesi fuori dalle tende per dare informazioni sul mestiere svolto dal suo possessore, in base ai colori e alle piume usate), o acquisti mocassini, copricapi o altri articoli “ispirati ai nativi americani”, prodotti in serie nei negozi turistici, ciò non ti insegna il loro significato. Presenta la falsa prospettiva che tutti i nativi americani siano uguali. In realtà, la storia, la cultura e l’arte delle diverse tribù variano ampiamente. Inoltre, le aziende non native che producono questi articoli sono quelle che ne traggono profitto. E così per lo Yoga e le arti marziali: possono essere appropriati quando le pratiche si concentrano su partecipanti bianchi e non riconoscono le loro radici orientali. Se pratichi yoga, dovresti sapere che è una pratica spirituale indù e considerare di fare qualche ulteriore esplorazione. Potresti non renderti conto, ad esempio, che alcuni mantra hanno un significato spirituale e che le perle di mala sono strumenti per aiutarti a focalizzare la tua attenzione durante la meditazione, non gioielli o decorazioni. O, ancora, acquisti un bellissimo portacandele elegante in un negozio dell’usato. Non sei ebreo, quindi non hai idea che sia una menorah, un candelabro speciale che ha un significato profondo nel giudaismo. Lo porti a casa e lo riempi di candele, ma un giorno un amico se ne accorge e sembra molto confuso. “Non sapevo che fossi ebreo”, ti dice. Tu rispondi che, infatti, non lo sei e loro ti spiegano cos’è una menorah. Ti renderai conto che non dovresti usarlo come portacandele. E che dire delle statuette di Buddha? Ebbene, in paesi come la Thailandia, dove il Buddhismo è la fede più seguita, sono apparsi cartelli tradotti in più lingue in cui si chiede di non sedersi sulle sculture o di non toccare quelle più piccole nei templi poiché oggetto di culto e non, come accade nel mondo occidentale, un oggetto di design. In questo caso, l’appropriazione culturale genera una mancanza di rispetto nei confronti di una religione e di una cultura.
Moda e spettacolo: i casi di cultural appropriation che hanno destato maggiore scalpore.
Nel mondo della moda e dello spettacolo si hanno i fenomeni più eclatanti, che si presentano sotto forma di soprusi e plagio, velati sotto le mentite spoglie di globalizzazione, influenza e contaminazione. E’ evidente come la globalizzazione abbia reso universale ogni stile, o, meglio, come la moda abbia reso omaggio e, al tempo stesso, generato proteste per l’uso che ha fatto delle proprie scelte riguardanti tratti culturali. Ne è un esempio la collezione del 2017 di Marc Jacobs che, aveva fatto sfilare le proprie modelle con acconciature tipiche dell’Africa sub-sahariana ribattezzandole con termini occidentalmente appetibili: i Bantu Knots, una pettinatura indossata per secoli dalla tribù Zulu in Sud Africa, sono divenuti Mini Buns, traducibile con “mini chignon” o “rotolini“, e vennero poi pubblicati dei tutorial con il titoli come “How to: twisted mini buns inspired by Marc Jacobs’ show” in cui si spiegava come realizzare l’acconciatura senza dare credito alle sue vere origini, usurpandone il significato e dando loro il giusto rispetto. Il web si indignò davanti a quest’appropriazione culturale, e le ragazze afroamericane, che sono solite utilizzare questa tipica acconciatura – parte della loro cultura da secoli – si fotografarono, creando anche un apposito hashtag su Instagram #ITaughtMarcJacobs, cercando di sensibilizzare lo stilista e l’intero mondo della moda su questo “furto culturale”.
Successe anche per la collezione di Givenchy AW 2015: stavolta l’appropriazione culturale viene dal sud America e riguarda le “Chola”. Il significato del termine “Chola” ha avuto un’evoluzione rispetto al 1800 quando veniva usato per identificare coloro che hanno origini latino-americane e fu poi usato per riferirsi agli immigrati messicani fino a quando è stato adottato per definire le ragazze delle bande Latinos negli anni ’70. Le ragazze “Chola” hanno uno stile ben definito, capelli curati detti “baby girl”, spesso con trecce e appunto riccioli da bambina sulla fronte, sopracciglia disegnate con la matita e labbra scure. Lo scopo, secondo lo stilista, era quello di rappresentare l’idea di una “Chola vittoriana – capo della gang”, ignorando, però, il vero significato del termine “Chola” e quello che rappresenta. I sostenitori della “cultural appropiation” definirono la collezione un insulto alla cultura latino-americana, anche perché tutte le modelle che hanno sfilato durante lo show erano bianche e nessuna di origini latino-americane ed inoltre il termine “vittoriano” accostato alla parola “chola” è stato utilizzato – sempre secondo i sostenitori della polemica – per “sbiancare” il riferimento ad una cultura prevalentemente appartenete agli immigrati del sud America.
Miley Cyrus e il twerking: in una delle plurime fasi della sua sfavillante carriera, la cantante, ha deciso di dominare il palco, lanciandosi nelle movenze sensuali di un ballo meglio noto come twerking. Da allora, in molti hanno attribuito la proprietà di questa danza alla cantante statunitense, ignari della sua vera origine. Il twerking, infatti, nasce nella Costa d’Avorio, dove rientra tra i riti per la fertilità, ed è particolarmente diffuso nella comunità nera. Nessuno, tuttavia, si era mai interessato a imparare né tanto meno a riproporre questo stile di ballo, prima che una persona bianca se ne “appropriasse”, senza approfondirne storia e significato.
Gucci e i turbanti: Gucci, durante una sfilata risalente ad alcuni anni fa, ha fatto sfilare modelli caucasici con indosso turbanti Sikh, hijab e bindi. Subito dopo l’evento, l’opinione pubblica si è giustamente indignata per la totale mancanza di rispetto mostrata dal direttore creativo Alessandro Michele nei confronti di religioni come l’Islam e il Sikhismo, appunto, a cui ha attinto per appropriarsi di indumenti sacri e trasformarli in accessori glamour. Senza considerare, inoltre, che nel mondo, ogni giorno, molte delle persone che indossano questi capi, manifestando dunque un chiaro credo religioso, sono vittime di insulti e abusi e non certamente elevate a icone di tendenza.
Questo non significa che ogni aspetto di un’altra cultura debba diventare off-limits: il nodo della questione è non globalizzare gli stereotipi per non rischiare di banalizzare le culture stesse. Proviamo a chiederci se quell’oggetto, quella decorazione, tradizione, ecc. ha o meno a che fare con un aspetto religioso e/o culturale ancora fortemente sentito, se le persone, in passato o ancora oggi, sono state giudicate o costrette a provare vergogna per la differenza culturale, se viene venduto o pubblicizzato solo perché di moda in questo momento. Dimentichiamo tutte le possibili implicazioni negative di una cultural appropriation, e proviamo a riflettere e ad agire a favore di una cultural appreciation.
Bisogna fare attenzione a non confondere la cultural appropriation con lo scambio culturale, perché in questo ultimo caso ci troviamo di fronte a una contaminazione volontaria e reciproca tra due culture che si trovano allo stesso livello da un punto di vista intellettuale e socio-economico, mentre nel primo si assiste a un totale squilibrio tra cultura dominante e cultura oppressa, a cui non solo viene tolta una parte consistente del proprio patrimonio culturale, ma vengono anche imposti usi e costumi della prima.
Il contesto anglosassone e quello italiano: metabolizzare lo schiavismo
Alcuni asseriscono che il contesto in cui si sviluppa l’appropriazione culturale, è diversa per quel che riguarda la cultura anglosassone e quella Italiana e la differenza è data dalle storie di colonialismo dei diversi paesi. Gli Stati Uniti sono nati da un atto di violenza territoriale: un gruppo di persone arrivano sulle sponde di un continente che considerano terreno vergine, lo trovano occupato, sterminano e ghettizzano i suoi abitanti fino a ridurli a una minoranza culturalmente ininfluente, chiusa nelle riserve. Gli stessi coloni commissionano il rapimento di uomini e donne dalle coste africane per poi venderli come schiavi, costruendo loro intorno una narrazione che mira a stabilirne la sostanziale inferiorità mentale e morale. In Australia, la violenza e la ghettizzazione colpiscono le popolazioni aborigene, che vivono in condizioni di marginalità mai davvero affrontate. In Sudafrica, dove l’apartheid (letteralmente: “separazione” in afrikaans) è stato legge fino al 1994, e le questioni legate all’appartenenza etnica vengono toccate con molta cautela.”
L’ Italia, invece, per secoli è stata divisa in staterelli a sé, sotto l’influenza dei popoli più disparati: la cultura è intrinsecamente meticcia, anche se non è esente dagli orrori del colonialismo, in Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia, e nella penisola la tratta degli schiavi è fiorita ben prima che gli Stati Uniti nascessero. Ma in Italia, teoricamente, la schiavitù si è spenta, all’inizio del diciannovesimo secolo, mentre, negli Stati Uniti in un presente più che recente: la ferita è ancora fresca, la subalternità economica e sociale ancora pulsante.
Lì dove c’è stata conquista, prima o poi arriva anche la rivendicazione dei gruppi etnici sulle cui spalle i coloni bianchi hanno costruito il paese. In questo contesto, rivendicare la propria identità e difenderla da quella che è l’ennesima razzia dei coloni è più importante che lasciare che le culture si contaminano: proprio perché lo squilibrio di potere è ancora presente, quello che si ottiene non è uno scambio da pari a pari, ma appropriazione.
Cosa c’è di sbagliato nell’appropriazione culturale.
L’aspetto problematico dell’appropriazione culturale consiste nel fatto che questa pratica si basa su dinamiche di potere riconducibili a fenomeni quali razzismo, schiavitù e colonialismo. Non è un caso, infatti, che il concetto sia nato proprio negli Stati Uniti e abbia preso piede soprattutto nel mondo anglofono e, più in generale in quello occidentale, interessando tutte quelle nazioni che hanno avuto un ruolo centrale nella storia anche per essersi macchiate di questi crimini. Un esempio lampante è l’adozione da parte di club sportivi nord-americani di simboli, nomi e iconografie di proprietà di quei nativi americani che loro stessi hanno privato negli anni di terre e diritti, appropriandosene con disinvoltura, ipocrisia ed arroganza.
Come muoversi una volta saputo tutto questo
Ora sappiamo perché non è il caso di vestirsi da nativo americano ad Halloween, ma non è sempre così evidente. Spesso è difficile, dall’esterno, distinguere tra appropriazione e apprezzamento: non posso sapere se una ragazza bianca si faccia le treccine solo perché pensa sia l’ultima moda o se sia veramente investita nella cultura e comunità nera, motivo per cui girare forbici alla mano sarebbe poco sensato. Dunque, come evitare di adottare comportamenti che possono risultare offensivi per altre culture e macchiarsi di cultural appropriation? L’informazione in questi casi, come in tanti altri, è l’arma più efficace. Informarsi, leggere e studiare ci permettono di avere gli strumenti adeguati con cui approcciarci alle altre culture e scoprire il valore che si cela dietro determinate espressioni culturali a noi estranee. Oltre a questo, è di fondamentale importanza essere il più rispettosi possibile rispetto alle diversità culturali: da anni, infatti, l’Occidente ha assunto una prospettiva etnocentrica rispetto al resto del mondo, ignorando completamente la storia e la cultura di comunità considerate minoritarie e, conseguentemente, irrilevanti. Oggi invece, anche grazie a Internet, disponiamo di tutti gli strumenti per conoscere e agire consapevolmente.
Esaminare la propria cultura. Attraverso l’auto-riflessione si sarà in grado di comprendere meglio le differenze e determinare ciò che è importante nelle culture di tutto il mondo. Se ti rendi conto che un aspetto specifico del tuo background culturale è centrale per la tua identità, e ti offenderebbe se qualcuno lo utilizzasse senza comprendere appieno cosa significa, considera che persone di tutto il mondo, in culture diverse dalla tua, potrebbe sentirsi esattamente allo stesso modo. Partire da sé stessi, quindi, è fondamentale: siamo autorizzati ad ammirare la cultura altrui, ma dobbiamo chiederci come le nostre azioni possano impattare comunità discriminate. Dovrebbe essere chiaro che utilizzare oggetti o costumi dall’alto valore simbolico come semplici accessori è offensivo. Dobbiamo assicurarci di non perpetrare stereotipi dannosi, dare credito, tempo e, quando possibile, soldi ai gruppi marginalizzati da cui prendiamo in prestito.
Non cadere nella trappola del “non ci vedo niente di male”. Molto spesso, il problema sta proprio lì. E, per finire, ricordarsi che si tratta di un tema complesso e stare a pensare a tutte le possibili regole ci farebbe solo venire mal di testa. La chiave per riassumere tutto è il rispetto: solo così si creano veri scambi e solo così si evita di finire nel mirino dei militanti del web.
Ascolta Prima. Uno dei modi migliori per comprendere e apprezzare un’altra cultura è ascoltare coloro che fanno parte del tessuto di quella società. Ascolta le loro storie, comprendi le implicazioni dietro gli aspetti della loro cultura che ti interessano e usa questa comprensione per ampliare la tua visione del mondo.
Considera il contesto. Capire quali sono i vari aspetti di una cultura e cosa significano è così importante.
Condividi la tua cultura. La parte più importante dello scambio culturale, è lo scambio reciproco. Condividi qualcosa di te, impara qualcosa su qualcun altro e prendi parte ad una comprensione reciproca del background e della cultura dell’altro.
Esiste l’appropriazione culturale al contrario?
Quando si parla di appropriazione culturale, si cerca sempre di rigirare la frittata contro la parte offesa, con frasi come “anche le minoranze hanno adottato usanze occidentali!”, volendo sottolineare il fatto che anche le culture minoritarie, negli anni, hanno adottato determinati usi e costumi di proprietà altrui.
Vero.
Ma anche no.
In realtà, il concetto di cultural appropriation inverso non esiste e sempre per via dello sbilanciato rapporto di potere che c’è tra una cultura e l’altra. Le minoranze, infatti, non hanno acquisito determinati tratti culturali di appannaggio della cultura dominante volontariamente, ma perché obbligati a conformarsi ai fini dell’assimilazione. Dunque, spesso, si sono trovate costrette ad abbandonare le proprie tradizioni, rimpiazzandole con quelle di società tipicamente occidentali dalle quali non sarebbero mai state accettate in altre condizioni. All’inizio, nell’analizzare la definizione, ci siamo soffermati sull’espressione “società più dominante”, la quale implica che esiste una (o più) società che esercita un potere su altre. Qui, attenzione, la parola chiave è “potere”. Il primo elemento che identifica un comportamento come “usurpativo” è la provenienza dello stesso da una persona privilegiata, ossia una persona appartenente alla cultura di maggioranza.
A differenza dello scambio culturale, in cui esiste un reciproco interscambio, l’appropriazione culturale si riferisce a una particolare dinamica di potere in cui i membri di una cultura dominante prendono elementi da una cultura di persone che sono stati sistematicamente oppresse da quel gruppo dominante. Per questa ragione non ha senso dire, per esempio, che le donne nere si sono appropriate della cultura occidentale perché indossano delle parrucche. Per secoli, la società ha oppresso le donne nere, le ha derise e discriminate, facendo loro credere che i capelli afro fossero brutti e poco professionali. Però quando Kim Kardashian sfoggia sui social le sue nuove treccine, improvvisamente non sono più “ghetto” e dozzinali. D’un tratto, diventano “boxer braids”, “Bo Derek”, “treccine alla Kim Kardashian” e nessuno ricorda che quelle pettinature appartengono da secoli alle diverse culture africane o che gli schiavi americani le usavano per tracciare vie di fuga dalle piantagioni. E, riguardo alle parrucche, le donne di colore non hanno adottato elementi di un’altra cultura per divertimento o per scelta, ma per sopravvivere alle discriminazioni.
Qualcuno protesta, decisamente: “Ma allora non si può più fare o dire niente!”
Non è proprio così. L’obiettivo delle minoranze non è di gridare al razzismo ogni due per tre o di tenere gelosamente le proprie culture lontano dallo sguardo dell’uomo bianco. Il bello di una società multiculturale è proprio questo: apprendere gli usi e le tradizioni di un altro popolo per poi, perché no, integrarle alle proprie usanze. Inoltre, ce lo insegna anche la storia: non esiste una cultura che sia rimasta pura e incontaminata. Per secoli, i popoli si sono mutualmente influenzati nella musica, nell’arte, nella cucina. Certo, spesso ciò è avvenuto tramite guerre e invasioni, ma il messaggio vale comunque. E per quanto la globalizzazione abbia permesso il magnifico incontro tra culture, ciò non significa che esse si siano totalmente e indiscriminatamente fuse tra loro. Permane nel mondo moderno una diversità culturale che va riconosciuta e preservata e non può considerarsi annullata d’emblée.
Questo è ancora più vero se è la cultura minoritaria ad essere assorbita da quella di maggioranza, per ovvie ragioni: da tempo immemore, chi scandisce i termini di cosa sia in/out è la “ingenua onnipotenza” della cultura occidentale e quindi delle società economicamente più sviluppate. È infatti evidente che lo sfruttamento di una identità tradizionale, che venga poi dismessa dopo poco, abbia un peso del tutto diverso a seconda di chi lo ponga in atto. Non c’è un reciproco scambio culturale ma una sistematica oppressione del gruppo dominante su quello oppresso.
Il vero punto è che, invece di fare ciò che abbiamo sempre fatto, adottando comportamenti sbagliati, è necessario comprendere, imparare, studiare e migliorare. Questo fenomeno non è una novità ed è ingenuo credere che lo sia: ciò che è cambiato è la possibilità per le minoranze di farsi avanti per far sentire la propria voce. C’è una sottile linea di demarcazione tra l’appropriazione culturale e l’apprezzamento per questa o quella cultura ed essa si poggia sulla consapevolezza e il rispetto. Non si apprezza una cultura se la si spoglia dei suoi valori storico-religiosi ai fini della soddisfazione di un capriccio momentaneo.
Ridurre degli elementi tradizionali ad accessori senza, tra l’altro, comprenderne la provenienza o il loro significato originale non è colpa della globalizzazione, è un comportamento superficiale di per sé.
Appropriazione culturale: il mio punto di vista.
Esiste una porzione di opinione pubblica convinta che l’appropriazione culturale sia solo una delle tante derive di un pensiero politicamente corretto che annulla la libertà di espressione e ostacola quel progetto di multiculturalismo ideale a cui le società tendono ormai da anni. Inoltre, i detrattori dell’appropriazione culturale, ritengono che questo fenomeno sia inevitabile dal momento che l’incontro e la progressiva integrazione tra diverse culture facciano parte di un disegno evolutivo irreversibile.
Poi ci sono gli attivisti per la giustizia sociale che spingono dal lato opposto, avanzando una critica basata sull’idea di base che è il gruppo, la nazionalità o l’etnia che ha sviluppato una certa pratica a dover essere consentito di praticare il fenomeno, anche se non hanno partecipato attivamente al suo sviluppo. Le persone al di fuori di quel gruppo non sono autorizzate a impegnarsi nella pratica. Detta così, l’idea sembra assurda. Sembra suggerire che gli Occidentali bianchi non possano praticare lo Yoga perché è stato sviluppato in India. Il fatto che le persone dell’India abbiano sviluppato lo Yoga non significa che le persone di quell’area, oggi, abbiano particolari pretese su di esso. Un altro problema è che le persone che hanno sviluppato la pratica in qualche modo hanno la pretesa di esercitarla esclusivamente. Ma non è vero. Se una persona sviluppa una pratica, quella persona non ottiene il diritto esclusivo di praticarla. L’appropriazione culturale diventa irrilevante, quando il vero problema è l’so che se ne fa di quella cultura ed il rispetto che si applica.
In una società libera, persone di culture diverse portano le loro pratiche nella società più ampia e sono seguite da altri in quella società, rendendo possibile una cultura più ricca e migliore. Personalmente mi trovo dinnanzi ad un paradosso per cui, come diretta interessata, non sono per niente infastidita da ciò che viene tacciato di essere appropriazione, salvo non venga praticato con il deliberato scopo di deridere le culture. Sono per la completa libertà di espressione e di sperimentazione, perché sono dell’idea che una società è libera solo se dà la possibilità di sviluppare e arricchire il proprio bagaglio culturale. Trovo che le critiche all’appropriazione culturale si rivelano incoerenti con aspetti essenziali della grandezza di una società libera perché le interpreto come un tentativo di impedire alle persone il processo generalmente vantaggioso di modificare e mescolare le pratiche culturali, il tutto in nome dei diritti di gruppo. Nella sua sostanza l’idea che parlare, raffigurare e creare delle narrazioni su luoghi o persone che non appartengono alla propria tradizione culturale o addirittura alla propria esperienza di vita sia una sorta di colonialismo culturale è, di per sé, pazzesca.
Un po’ mi viene in mente quel detto che dice “la cultura è destinata ad essere rubata. Se non vale la pena rubare, allora non è cultura”, a suffragio del mio ragionamento. E lo applico soprattutto nel campo dell’arte. Non possiamo pensare di limitare l’espressione artistica solo a causa del background di qualcuno. Creare arte dall’esperienza umana dà vita a una rappresentazione della vita. E questo ha tanto a che fare con il colore della pelle quanto il numero di stelle nel cielo. Si potrebbe riconoscere che, alla fin fine, contano soprattutto le intenzioni. E se l’intenzione è creativa o autenticamente culturale, più che di “appropriazione” sembrerebbe giusto parlare di ispirazione o contaminazione. Anche se bisogna ammettere che, in alcuni casi, lo spostamento da una cultura all’altra può nobilitare – e rendere remunerativo – qualcosa che finché stava nella cultura originaria era visto in modo negativo o comunque poco interessante. Che la cultura occidentale si arricchisca speculando su elementi presi dalle culture e dalla popolazioni non occidentali è un dato di fatto abbastanza evidente e certo non nuovo, ma parlarne qui significherebbe aprire un capitolo sulla natura e sui vizi del capitalismo, e il discorso si allargherebbe troppo. Per quel che interessa qui, desidererei sottolineare l’importanza delle intenzioni e la credibilità dell’operazione artistica o creativa.
Se il riferimento alle altre culture è fatto con onestà e rispetto – e magari inserendo i dovuti crediti e esplicitando la fonte originaria – il tutto può comunque essere un modo per favorire quelle sovrapposizioni e quelle intersezioni tra popoli di cui abbiamo ancora così tanto bisogno.
Essere bollati di una colpa gravissima (quella dell’appropriazione culturale) perché si affronta un tema che non si è vissuto direttamente ed essere annoverati come un vero e proprio criminale culturale perché appropriarsi di esperienze che non appartengono alla propria vita, al proprio ambiente, o parte della propria tradizione culturale per farne una narrazione qualsiasi, equivale a una forma subdola e disgustosa di spoliazione e di oppressione nei confronti di coloro oggetto di quella narrazione abusiva, è lecito. Ma teniamo ben presente che il tema è un tema serissimo in quei luoghi dove le popolazioni native sono state effettivamente spogliate della loro identità e della loro cultura, ed infatti, in quelle nazioni, senza troppi clamori, stanno attuando ravvedimenti operosi, con l’intento di porre rimedio a uno dei più vergognosi retaggi storici del colonialismo. Ma fuori da questo contesto, si rischia davvero di cadere nella pantomima e di privare la cultura e la creatività del suo carburante, la contaminazione e la libertà creativa. Alla fine, senza contestualizzare l’argomento, corriamo il rischio di sortire l’effetto contrario di quello che ci si propone di combattere, radicalizzando le idee e introducendo la censura, o peggio ancora l’autocensura. Ai creativi resterebbe solo un’opzione: parlare di sé e rappresentare se stessi. Il punto è che il motore dell’arte e della letteratura è la contaminazione delle esperienze e delle culture e l’uscita dal canone dominante. La fobia dell’appropriazione culturale nullifica questo percorso di comprensione e di trasmissione di esperienze diverse dalla propria. Il dogma dell’appropriazione culturale ci renderebbe davvero più dlindlon di quello che già siamo.
Ho l’impressione che il concetto, estremizzato, stia arrivando a limitare la libertà espressiva e la creazione artistica: a risentirne sono le istituzioni culturali che permeano l’industria creativa, come gli editori e le case di produzione che cominciano ad evitare soggetti che li potrebbero far incappare in gaffe o querele legali. Gli editori sono molto nervosi quando ricevono una proposta che potrebbe avere quella connotazione perché temono recensioni negative, cattiva pubblicità e perdita di reputazione, mentre i social, che forgiano un’opinione amplissima, sono controllati da gruppi radicalizzati o da logiche che seguono più il sensazionalismo che l’accuratezza dell’informazione.
Lo scrittore pakistano Hanif Kureishiha diceva che l’incontro fra culture è sempre avvenuto e la globalizzazione ha reso universale ogni stile. La globalizzazione ha reso universale ogni stile, ogni moda, ogni cultura: non dovrebbe esserci niente di male, se una ragazza bianca vuole avere le treccine afro o una nera tingersi i capelli di biondo. È la libertà di espressione. È uno scambio, un riconoscimento reciproco, una forma di apprezzamento anziché di appropriazione culturale.
Ma senza una giurisdizione adeguata, dove sta il confine tra abuso culturale e apprezzamento valorizzante di un’usanza altrui? La questione è bruciante, soprattutto nella nostra epoca in cui la globalizzazione ha reso fluide le frontiere tra individui e comunità. Il contatto e lo scambio fra culture è il motore del progresso intellettuale a livello locale come mondiale. Il confine da non valicare starebbe invece nello stereotipo culturale. Per lavorare su questo si dovrebbe agire alla radice, invece che intervenire sui sintomi, generando situazioni parossistiche: se le varie comunità del mondo avessero pari trattamento e dignità intellettuale, il prestito culturale sarebbe a doppio senso e garantirebbe la crescita di entrambe le culture.
Abbiamo un disperato bisogno di costruire ponti e non di erigere barriere, ma come guardiamo di più, strettamente, alla disuguaglianza radicata nella storia dello scambio culturale, diventa chiaro che il termine appropriazione culturale è semplicemente dare un nome allo sfruttamento che è sempre esistito e continua ad oggi. Di questi tempi è più importante che mai avere l’opportunità di condividere conoscenze, esperienze, storie, credenze e creatività attraverso le culture e paesi. Tuttavia, è anche essenziale che comprendiamo e riconosciamo il contesto in cui avvengono questi scambi e considerare il nostro ruolo nel perpetuare o smantellare una lunga storia di disuguaglianza culturale.
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