Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. Khalil Gibran
Chissà perché, anche quando si parla di razzismo & family, c’è sempre una sorta di provincialismo Italian-style che ci spia e che rigurgita il meglio/peggio di sé, in ogni piega della discussione, condendolo di spezie e pressapochismo a random. Siamo tutti talmente lobotimizzati, trincerati dietro una sorta di banalizzazione o normalizzazione dei concetti da riuscire a radicalizzare e abbruttire il linguaggio, racchiudendolo in una bandolo dove l’uso della logica è miraggio. E, la cosa peggiore è che si riesce a legittimizzare la propria ignoranza.
Per me la lingua, e le parole di cui è composta, raffigura la parte più profonda della nostra personalità … È ciò che ci consente … di incontrarci con gli altri e di differenziarci dagli altri. L’uso corretto dell’etimologia e della semantica ci portano, per forza di cose, al significato profondo dei termini utilizzati e, tra una pausa e l’altra che concediamo al nostro respiro, dovremmo porci il quesito se riflettiamo a sufficienza sul loro adeguamento ai contesti in cui li inseriamo; se la nostra evoluzione linguistica vada a braccetto con quella culturale.
Quando si tocca l’argomento “razzismo”, la lingua italiana corrente, difficilmente riesce a rendersi uno strumento valido per una solida ed esaustiva discussione sul tema. Spesso, per ovviare alle lacune semantiche, siamo costretti a ricorrere a parole straniere che possano descrivere un concetto attualmente inesprimibile in italiano. Rispetto agli altri paesi anglosassoni , francofoni e spagnoli/portoghesi, per esempio, il dibattito sul razzismo è in atto da molto più tempo e, nonostante in Italia vi siano minoranze etniche di un certo rilievo, non si è mai creata una profonda e insistente conversazione attorno alla multi-etnicità. E’ quindi risultato molto più facile prendere parole da quei contesti anziché crearne di nuovi adatti alla nostra società. E così per i significati che attribuiamo a certe parole universali, nel loro senso, ma differenti nella loro storia e attribuzione.
La mancanza di termini specifici e adatti rallenta la possibilità di una discussione conscia e consapevole sulle tematiche legate al razzismo, impedendo di indicare i problemi con il proprio nome, senza lasciarli in una nuvola fumosa e senza dar adito a forme di talebanesimi e fondamentalismi che nulla hanno a che vedere con il tipo di trasmissione culturale avvenuto in questo paese da generazione a generazione, passando per vari gradi e cercando di rispettare la propria storia e tradizione. Il rischio di stagnazione nei dibattiti e di violenze e volgarità linguistiche sono sempre in agguato e spingono le persone non-bianche, in Italia, ad arrampicarsi su concetti e parole che non esistono o che hanno significati diversi rispetto al contesto anglo-franco-americano, impedendo loro di descrivere le proprie esperienze e parlare di questi temi . Come intavolare una discussione, un confronto, un dibattito se non si hanno le parole per farlo?
E che dire, invece delle parole più comunemente usate? Razzismo, Xenofobia , Discriminazione, Pregiudizi, Persecuzione, Segregazione, Intolleranza e Microaggressioni …… tutte parole che si usano con una certa leggerezza e intercambiabilità, senza comprendere che hanno il proprio significato e una contestualizzazione specifica.
Ecco che quando si parla di razzismo in Italia, non si considerano tutta una serie di accezioni e contestualizzazioni storiche che lo rende, in un certo qual modo, con connotazioni “diverse” da quello americano, inglese, coloniale e storico in generale. O quando si cita il termine “identità” per spiegare le diversità umane, venuto meno il concetto di razza, in quanto attaccato dalle analisi razionali della genetica, si è passati a coordinare tale concetto con altre nozioni, ad esempio quelle di etnia, parentela e appunto identità. Secondo questa ricostruzione queste nozioni hanno in comune, con quella di razza, la predominanza del “sangue” in questioni che riguardano la sfera del sociale e si presterebbe a usi contrastivi e oppositivi, creando (specie nel caso dell’identità etnica) un sentimento che richiama un’appartenenza comune a una tradizione, che però è solo immaginata.
In Italia il problema del razzismo è oggi associato immediatamente all’immigrazione, come se il razzismo fosse una conseguenza del flusso di immigrati che ha investito l’Italia, e l’Europa, negli ultimi decenni. Questa associazione ha il doppio scopo di consolidare la mancanza di una memoria storica del passato dell’Italia, e insieme di vedere nell’altro, percepito come portatore di una profonda e inconciliabile “diversità”, la causa di episodi di discriminazione razziale. Sarebbe importante invece svelare il processo di mistificazione del colonialismo italiano, l’ignoranza di una parte del nostro passato, per comprendere come oggi in Italia sia possibile un’intolleranza quotidiana.
Ma quello che mi preme analizzare oggi è come il razzismo, al di fuori di banali semplificazioni che ruotano intorno al tema del pregiudizio, sia prima di tutto un problema di spazi e di parole laddove un soggetto associ un carattere fisico o culturale a un posto e cerchi di trovare, tra le parole che conosce, quel “qualcosa” che possa esprimere, descrivere e giustificare il pregiudizio e lo stereotipo che si nasconde dietro il proprio ragionamento e il proprio atteggiamento. Non mi interessa, in questo contesto, scovare razzisti, denunciare comportamenti razzistici, o trovare l’espressione di un pregiudizio offensivo, ma, semplicemente, mostrare come nella struttura dei nostri discorsi sul tema , sia così difficile isolare quegli enunciati che legano la discussione su luoghi comuni, ignorando l’importanza che la lingua ha nel rappresentare e continuare a far fluire la ripartizione spaziale.
Chiedere se l’Italia è davvero razzista, presuppone un dubbio di fondo. E quel dubbio è dato dalla consapevolezza che in quella parola, razzista, vi sia incluso una serie di tante altre parole, concetti, considerazioni storiche, politiche e sociali che vanno comparati con quelli degli altri paesi dove il fenomeno ha tenuto banco per un lasso di tempo maggiore. Un dubbio dato dal sospetto che, in questo paese, lo studio delle varie forme di razzismo sia un tabù da saltare a piè pari, perché, in realtà se ne conosce solo uno ed è a quello che ci si vorrebbe rifare ad ogni occasione di dibattito. Ecco perché ritengo fondamentale conoscere a fondo il vero significato delle parole che condiscono, caratterizzano e definiscono questo tema, prima di dare una qualsiasi risposta alla mia domanda iniziale.
Razzismo, intolleranza e discriminazione sono le manifestazioni più problematiche della convivenza sociale. Ogni nero, mixed, persona di colore diverso dal bianco, in Italia, può raccontare una storia di discriminazione: è un fenomeno molto più insidioso e subdolo che in altri paesi. I pregiudizi, gli stereotipi negativi, gli atteggiamenti intolleranti, i comportamenti aggressivi verso le differenze culturali e/o somatiche di chi è o è percepito come straniero, si sfogano spesso in violenze verbali , discriminazioni sul lavoro e mancanza di pari opportunità.
Ma è necessario comprendere molto bene la definizione di razzismo, educarsi, leggere libri, conoscere la storia delle discriminazioni razziali, del fenomeno della xenofobia, dei rigurgiti razzisti, sfidare le proprie convinzioni e stereotipi, prima di lanciarsi in accuse che molto spesso hanno il sapore della frustrazione e della rabbia. E studiare non significa assimilare concetti in modo sterile e ripeterli come fossero l’omelia della messa domenicale. Significa comparare i diversi concetti, analizzarli e comprenderli in fondo.
Razzismo
Il termine razzismo designa un’ideologia che, fondata su una suddivisione degli esseri umani in gruppi supposti naturali (le cosiddette razze), in base all’appartenenza etnica, nazionale o religiosa, giustifica la supremazia di uno sugli altri. Le persone non sono giudicate e trattate come individui, ma come appartenenti a gruppi pseudo-naturali, con caratteristiche collettive ritenute immutabili.
Parte dall’idea che la specie umana possa essere suddivisa in razze, distinte dal punto di vista biologico e caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali, etiche o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia tra di esse. E’ una generale e piuttosto antica tendenza a discriminare i “diversi” (per nazionalità, cultura, censo, fede religiosa) e la principale funzione del razzismo, in tutte le varianti, è stata sempre quella di giustificare forme di discriminazione o oppressione, ora palesi, ora occulte.
Il costrutto sociale di razza non si fonda soltanto su caratteristiche esteriori, ma anche su presunte peculiarità culturali, religiose o inerenti all’origine. Ecco perché, ad esempio, differenze di status socio-economico o di livello d’istruzione sono spiegate come biologicamente date con l’appartenenza etnica, culturale o religiosa. Al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone, nell’Europa continentale il concetto di razza è stigmatizzato come costrutto fondante del razzismo e perlopiù usato tra virgolette. Il termine è tuttavia diffuso nelle convenzioni internazionali ed è per questo impiegato anche in alcuni articoli di legge, in molti paesi, per definire una caratteristica sulla base della quale è vietato discriminare.
Se, quindi, esiste il razzismo non altrettanto si può dire delle razze, intese come specie diverse e distinte tra gli umani. La scienza ha mostrato l’inesistenza delle razze umane sul piano biologico e l’infondatezza del concetto di razza sul piano scientifico. Si può parlare di una razza soltanto, e cioè del genere umano. Le razze esistono solo in quanto costrutti simbolici, cioè nella misura in cui sono state inventate; esse non preesistono al razzismo, è il razzismo che le costruisce. Non si vuole affermare che le differenze tra gli umani non esistono: esistono sia sul piano culturale, sia somatico e visibile, sia genetico e non visibile e proprio grazie a tale multiforme diversità, l’Homo sapiens è riuscito ad adattarsi e a prosperare in ambienti molto differenti. Ma, come non esistono culture statiche, immutabili, impermeabili a scambi, meticciamenti e trasformazioni, così le differenze sul piano genetico sono diffuse all’interno delle popolazioni.
A riassumere, quindi , Il razzismo si basa su quattro principi chiari: l’esistenza delle razze, il fatto che le razze siano immutabili, che ne esistano di superiori e di inferiori e, infine, che il mescolamento tra razze volesse dire degenerazione.
Due sono le forme di razzismo che l’Occidente ha conosciuto nel tempo:
La prima è quella ideologica e biologista, che si basa sulla presunta differenza tra le razze umane e considera quindi quella bianca (o ariana) come superiore.
La seconda, che si è diffusa nella società multietnica a cavallo tra i due millenni, è quella differenzialistica. Essa non si basa su una dichiarata superiorità di una razza sull’altra, quanto sull’idea che i gruppi umani siano culturalmente “differenti tra loro”. Il che è per alcuni aspetti vero, solo che per i sostenitori di tale tesi ogni contaminazione è da considerarsi negativa (per l’uno e per l’altro gruppo), perché metterebbe a repentaglio i valori tradizionali delle società di riferimento.
Il nuovo razzismo differenzialista è ossessionato dall’idea della “sostituzione etnica”, ossia dalle convinzioni che troppi appartenenti a gruppi etnici differenti porteranno inevitabilmente alla fine delle culture nazionali. Costoro ignorano che nel corso della storia questi fenomeni sono sempre avvenuti e che noi siamo, sempre e comunque, il prodotto di una mescolanza che si è prodotta nel corso dei tempi.
E’ mia assoluta convinzione che, partendo da tutto questo, occorra non estendere in modo indefinito il concetto di razzismo ma neppure limitarsi a una definizione troppo ristretta. Per comprendere il razzismo, oggi, occorre pensare che esistono più razzismi e che le concezioni razziste si adattano a contesti diversi, si modificano rispetto ai propri bersagli, interessi, modi di azione e forme argomentative. Occorre effettuare diagnosi attente a identificarne le nuove forme argomentative e pratico-sociali non sempre evidenti a uno sguardo ingenuo o assuefatto. I nuovi razzisti possono non assomigliare a quelli del passato, tuttavia, nella fase attuale, sembrano aumentare manifestazioni riconducibili ad altre del passato. Il nucleo dell’immaginario razzista sta proprio nell’ossessione per la mescolanza e nella paura della perdita dell’identità ma anche di privilegi.
Quando si parla di razzismo si assiste ad un livello di assuefazione o persino di legittimazione verso l’acuirsi dell’ostilità rivolta a certi soggetti e gruppi, nella fattispecie verso chi ha la pelle più scura. Ecco quindi la necessità di ridefinire il fenomeno nei suoi molteplici aspetti, accettandone l’indeterminatezza di contenuto, seguendo le vie del suo ri-contestualizzarsi, riconoscendo punti di contatto, intreccio, sovrapposizione tra fenomeni designati da termini diversi (razzismo,, xenofobia, discriminazione … tutti quelli che sto tenendo in considerazione qui) nei quali è possibile ravvisare razzismo o componenti di tipo razzista.
Il razzismo non è un problema solo del pensiero. Deve essere conosciuto e compreso ma deve, imperativamente, essere combattuto nell’azione con scelte che devono mirare a tutelare il diritto alla differenza e l’esigenza di equità, coniugando, le esigenze dell’universalismo e dell’appartenenza a una comune umanità con quelle del differenzialismo e della tutela delle diverse identità. Occorre, per agire in profondità, lavorare sulla trasformazione della mentalità diffusa, sulla decostruzione di stereotipi e pregiudizi, sulla maturazione di capacità relazionali solidali e non violente, pur se consapevoli, e sulla conflittualità tra differenti. E questo compete anche e soprattutto alla pedagogia e all’educazione, specie nel loro volto interculturale, entro la pluralità dei contesti scolastici ed educativi.
Il razzismo è insito nell’uomo che nel suo simile non riconosce un altro uomo che merita la stessa considerazione e lo stesso rispetto, ma, al contrario, un “diverso” da discriminare, sfruttare e, nei casi peggiori, annientare fisicamente perché di ostacolo ai progetti e alle aspirazioni di egemonia di una élite, una classe sociale, un partito, un’etnia, una fede.
Razzismo contro i neri (Afrofobia)
Una particolare declinazione del razzismo è l’afrofobia. Cioè la paura, l’idiosincrasia, il rigetto nei confronti degli uomini africani o di ascendenza africana. Un razzismo non meno odioso e ributtante degli altri, ma più sottile, più perverso, poiché è basato non su un pregiudizio generico che accompagna normalmente il razzismo “tout court”, bensì specifico, perché dà vita a comportamenti ostili nei confronti di persone con il colore nero della pelle. Il razzismo moderno nei confronti dei neri ha origine molto antica e mutazioni recentissime. Esisteva in passato quando i Conquistadores spagnoli depredavano, massacravano e riducevano in schiavitù gli antichi e civilissimi Maya, Toltechi e Aztechi, e deportavano nel Nuovo mondo gli africani catturati con la violenza e l’inganno proprio negli Stati africani occidentali, e c’è oggi nelle società contemporanee dove giovani immigrati di colore sono discriminati, sfruttati, schiavizzati, oppure gli episodi di razzismo nei confronti dei calciatori dalla pelle scura.
Il razzismo contro i neri è riferito specificamente al colore della pelle e a caratteristiche fisionomiche. Dall’aspetto esteriore (fenotipo) si traggono conclusioni sull’interiorità (genotipo), con l’attribuzione di caratteristiche personali o comportamentali negative. Il razzismo contro i neri trae origine dall’ideologia razzista impostasi nel XVII e XVIII secolo a giustificazione dei sistemi di potere coloniali e dello schiavismo. Al contrario delle caratteristiche cui sono riferiti gli atteggiamenti e i comportamenti razzisti fondati sulla (presunta) religione o cultura di altre persone, le caratteristiche che scatenano il razzismo contro i neri sono visibili e immutabili. Sono decisivi soltanto caratteristiche esteriori o il colore della pelle. Non conta se una persona è qui da generazioni o è appena arrivata, se è ben integrata o no. Questa forma di razzismo non può dunque essere combattuta con provvedimenti d’integrazione, ma soltanto con misure per l’eliminazione di comportamenti e atteggiamenti discriminatori.
L’insieme degli atteggiamenti e dei comportamenti tenuti proprio dagli occidentali nei confronti delle persone dalla pelle scura, dice il sociologo Mauro Valeri, “sono pregiudizi e comportamenti messi in atto, in genere, da persone che hanno come tratto distintivo il colore più chiaro della pelle e soprattutto che hanno il potere di stabilire chi siano, o meglio cosa debbano essere coloro che hanno la pelle nera”.
Nel suo libro “Afrofobia. Vecchi e nuovi razzismi”, il sociologo Valeri traccia un excursus storico del pregiudizio verso gli uomini dalla pelle scura presente sia nelle società antiche sia in quelle contemporanee.
“In questo modo, un dato assolutamente secondario e non unitario – com’è il colore della pelle umana – diviene uno stigma all’origine di forme storiche di razzismo, come la tratta negriera, la schiavitù razziale, il colonialismo, il fascismo, il nazismo, la segregazione negli Stati Uniti, l’apartheid, e che mantiene la sua forza ancora ai nostri giorni, sebbene abbia assunto aspetti multiformi e più difficili da interpretare. Anche quando la scienza ha dimostrato che avere la pelle bianca o nera non vuol dire altro che avere la pelle bianca o nera, l’afrofobia ha continuato ad essere una delle modalità con le quali si stabiliscono relazioni sociali, che sono sempre anche relazioni di potere”.
Discriminazione razziale
L’espressione “discriminazione razziale” definisce ogni azione o pratica che, senza giustificazione alcuna, svantaggia determinate persone, le umilia, le minaccia o ne mette in pericolo la vita e/o l’integrità fisica a causa delle loro caratteristiche fisionomiche, etniche, culturali e/o religiose. A differenza del razzismo, la discriminazione razziale non ha necessariamente un fondamento ideologico. Può essere:
– intenzionale o diretta, quando una persona, per ragioni inammissibili, è svantaggiata rispetto a un’altra che si trova in una situazione comparabile. La discriminazione diretta va distinta dalla disparità di trattamento dovuta a criteri o motivi legittimi.
– indiretta o involontaria, quando, nonostante la loro apparente neutralità, basi legali, politiche o pratiche hanno come risultato una disparità di trattamento illecita.
– multipla , quando una persona è discriminata allo stesso tempo a causa di più caratteristiche malviste (per esempio a causa di caratteristiche fisionomiche o dell’appartenenza religiosa e del sesso, della classe sociale, di una disabilità o di un’altra caratteristica.
– intersezionale, quando diverse forme di esclusione interagiscono in modo da farne risaltare una in particolare. Per esempio, un comportamento razzista nei confronti di una donna può manifestarsi sotto forma di sessismo o, al contrario, un atto in realtà di stampo sessista può essere motivato con argomenti razzisti.
Xenofobia
Secondo il Treccani, xenofobìa (o senofobìa) è un sentimento di avversione generica e indiscriminata per gli stranieri e per ciò che è straniero, che si manifesta in atteggiamenti e azioni di superiorità e di insofferenza e ostilità verso le usanze, la cultura e gli abitanti stessi di altri paesi, senza peraltro comportare una valutazione positiva della propria cultura, come è invece proprio dell’etnocentrismo; si accompagna tuttavia spesso a un atteggiamento di tipo nazionalistico, con la funzione di rafforzare il consenso verso i modelli sociali, politici e culturali del proprio paese attraverso il disprezzo per quelli dei paesi nemici, ed è perciò incoraggiata soprattutto dai regimi totalitarî. Il termine è usato, per estensione, anche in etologia, per indicare l’avversione di popolazioni animali legate a un territorio verso le popolazioni esterne.
La costruzione di immagini di presunti “stranieri” o “altri” non ha ragioni antropologiche, ma socioculturali. In altre parole, non è data per natura e può quindi essere modificata. L’uso del termine xenofobia cela dei rischi, in quanto spiega i processi della stigmatizzazione in termini psicologici e biologici (-fobia), suggerendo così che violenza ed esclusione siano date per natura. Il termine è tuttavia utile per definire l’atteggiamento confuso e non necessariamente ideologizzato di chi rifiuta per principio tutto ciò che è “straniero”, teme l’ inforestieramento e auspica una politica dell’immigrazione discriminatoria e restrittiva. Il concetto è per altro usato anche perché molto diffuso nelle convenzioni e nei documenti internazionali (spesso in combinazione con razzismo).
Ostilità antimusulmana
Il termine “ostilità antimusulmana” designa un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle persone che si definiscono musulmane o sono percepite come tali. Nell’ostilità antimusulmana possono confluire elementi di rifiuto nei confronti di persone originarie di determinati Paesi (islamici), di società considerate patriarcali o misogine o della pratica fondamentalista della fede. Rientra nella visione degli antimusulmani anche la convinzione che tutti i musulmani vogliano introdurre la sharia, non rispettino i diritti umani e simpatizzino con i terroristi. Il termine “ostilità antimusulmana” è preferito al termine islamofobia, in quanto le misure statali contro la discriminazione dei musulmani intendono proteggere singoli individui e gruppi di individui, non una religione
Antisemitismo/Ostilità antiebreica
Il termine ostilità antiebraica designa un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle persone che si definiscono ebree o sono percepite come tali. Il termine antisemitismo è usato oggi come iperonimo e in parte anche come sinonimo di tutti gli atteggiamenti antiebraici. L’antisemitismo è una forma particolare di razzismo in cui a un’appartenenza religiosa (l’oggetto dell’ostilità antiebraica) viene fatta corrispondere un’appartenenza etnica (l’oggetto dell’antisemitismo, anche se il termine semitico è originariamente un costrutto linguistico).
L’antisemitismo include reati di matrice razzista (crimini d’odio o hate crimes), quali gli attacchi all’integrità fisica o alla proprietà di Ebrei e istituzioni ebraiche, ma anche dichiarazioni verbali o scritte (discorsi d’odio o hate speech). Insieme ai mezzi legali offerti dal diritto civile, l’iscrizione nel diritto penale e il perseguimento dei reati antiebraici o antisemiti costituiscono elementi importanti dei provvedimenti necessari contro l’antisemitismo.
D’altra parte, possono essere antisemiti anche convinzioni ostili, pregiudizi o stereotipi chiaramente o vagamente riconoscibili nella cultura, nella società o in atti individuali finalizzati ad anteporre il proprio gruppo di appartenenza a quello degli Ebrei o a denigrare o svantaggiare gli Ebrei e le loro istituzioni. Occorre pertanto prendere provvedimenti in tutti gli ambiti sociali e a tutti i livelli istituzionali – federale, cantonale e comunale – e soprattutto a livello individuale.
Antiziganismo
L’antiziganismo è un concetto coniato in analogia all’antisemitismo e in uso dagli anni 1980 per designare l’atteggiamento ostile e caratterizzato da stereotipi negativi nei confronti delle persone e dei gruppi di persone percepiti come zingari (Jenish, Sinti, Rom e altri), indipendentemente dal fatto che conducano una vita nomade o meno. Nel corso della storia, l’antiziganismo si è manifestato sotto forma di discriminazione economica, sociale o statale, di persecuzione politica, di espulsioni, internamento, sterilizzazione coatta e genocidio organizzato dall’apparato statale. Il termine non è incontestato, in quanto contiene la designazione zingaro, da molti concepita come razzista, e ne diffonde quindi il contenuto negativo anche se è usato in riferimento all’ostilità nei confronti degli Jenisch, dei Sinti e dei Rom.
Estremismo di destra
L’estremismo di destra si fonda sulla convinzione che gli esseri umani non siano tutti uguali e su un’ideologia dell’esclusione che può andare di pari passo con un elevato grado d’accettazione della violenza. Tutte le definizioni dell’estremismo di destra concordano nell’individuarne componenti costitutive nel razzismo e nella xenofobia. Gli estremisti di destra ritengono che le disuguaglianze sociali siano dovute a fattori razziali o etnici e chiedono omogeneità etnica. I diritti fondamentali e i diritti umani non sono considerati principi validi dappertutto per tutti gli esseri umani. Il pluralismo dei valori della democrazia liberale e il multiculturalismo della società globalizzata sono respinti e combattuti.
Il Pregiudizio
Il pregiudizio è un’idea, un’opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore. Praticamente un giudizio anticipato rispetto alla valutazione dei fatti. Un’ atteggiamento che presenta caratteri di superficialità, indebita generalizzazione e rigidità, implicando un rifiuto di mettere in dubbio la fondatezza dell’atteggiamento stesso e la persistenza a verificarne la consistenza e la coerenza. Sono spesso riferiti alla componente razziale, ma non sono solo legati alla razza, bensì anche a genere, religione, etnia. Scaturiscono, inevitabilmente, dall’erronea generalizzazione causata dagli stereotipi e dalle categorizzazioni in generale.
I fattori che influenzano il pregiudizio sono l’educazione e l’imprinting della famiglia, il gruppo sociale di appartenenza, la personalità più autoritaria portata al pregiudizio (rigidità maggiore, rispetto delle regole), la competizione fra gruppi. Tutti questi aspetti possono influire nella formazione dei pregiudizi, che si apprendono in primo luogo in famiglia. I bambini non nascono con pregiudizi, ma vengono a loro indotti soprattutto dai loro familiari. I bambini imitano i genitori e se vedono azioni di discriminazione le imitano: il grosso dei pregiudizi vengono appresi in età pre-scolare, ma possono essere ridotti in seguito con l’esperienza.
C’è un marcato collegamento tra pregiudizi e stereotipi . Una persona che ha dei pregiudizi potrà, con più probabilità rispetto ad altri, avere opinioni stereotipate e quindi pregiudizievoli circa un gruppo/i o un individuo.
Lo Stereotipo
Lo stereotipo trae il suo significato all’arte della stereotipia, più o meno un’incisione su tavoletta metodo di stampa a fine ‘700. Sono “stampi cognitivi che riproducono le immagini mentali delle persone o in altre parole i quadri mentali che abbiamo in testa” . Una idea preconcetta, prevenuta e generalizzata spesso basata su background culturali, etnicità, orientamento sessuale e religioso, disabilità, età e nazionalità che spinge ad etichettare un gruppo o un individuo in maniera sia negativa che positiva. Un’immagine o un’idea su di un particolare tipo di persona che è diventata fissa a causa del suo utilizzo e della sua diffusione. Sono radicati nelle norme sociali, nella cultura, nei valori della società e vengono appresi naturalmente durante la socializzazione, dai media, dalla letteratura etc …. Un’affermazione basata su idee preconcette e disinformazione. Ci sono diversi tipi di stereotipi:
- Gli stereotipi sociali, che consistono nell’attribuire alcuni tratti in comune a tutti gli individui che sono membri di un gruppo e anche nell’attribuire a questi stessi membri alcune differenze rispetto a membri di altri gruppi. Gli stereotipi introducono la semplicità e l’ordine, là dove sono presenti una complessità e una variazione pressoché casuali. Gli individui membri di un gruppo sociale cui viene attribuito uno stereotipo saranno giudicati simili tra loro solo rispetto ad alcuni attributi. Ci aiutano a far fronte alle situazioni introducendo una semplificazione della realtà sociale. Permettono di preservare le differenziazioni tra il proprio gruppo e gruppi esterni.
- Gli stereotipi negativi (es. i ne*ri sono pigri; gli scozzesi sono avari, le donne sono pettegole).
- Gli stereotipi positivi (es. gli austriaci amano la musica, i tedeschi sono industriosi).
- Gli stereotipi neutri (es. i giapponesi scattano molte foto; gli olandesi sono lentigginosi; gli italiani gesticolano).
Lo stereotipo (componente cognitiva) è alla base del pregiudizio. Il fattore cognitivo è legato allo stereotipo, poi esiste un fattore valutativo dal quale sfocia il pregiudizio. Il pregiudizio (componente valutativa) è legato al fattore affettivo: quando valuto i sentimenti che ne conseguono, ne segue un fattore comportamentale, grazie al quale discrimino. Difatti, può condurre alla discriminazione (componente comportamentale), perché in base ad essi cambia anche il comportamento.
Un esempio per tutti: “provo ribrezzo per un musulmano solo perché è musulmano (pregiudizio), penso che, siccome è musulmano, sicuramente è violento (stereotipo), nelle amicizie prediligo i cristiani (discriminazione)”.
La Persecuzione
Si intende per persecuzione l’insieme delle azioni di forza e di atti ostili, diretti contro una o più persone. Di solito le persecuzioni sono rivolte a comprimere un movimento politico o religioso o a eliminare un gruppo etnico o sociale, economicamente, politicamente o tecnologicamente inferiore a un gruppo dominante che si ritiene superiore culturalmente. Più genericamente, insieme di atti ostili volti a danneggiare una persona o un gruppo di persone.
Nel diritto internazionale, la definizione di persecuzione la troviamo nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale 17 luglio 1998 che all’articolo 7, riguardante i crimini contro l’umanità, recita che “per persecuzione s’intende la intenzionale e grave privazione dei diritti fondamentali in violazione del diritto internazionale, per ragioni connesse all’identità del gruppo o della collettività. Persecuzione contro un gruppo o una collettività dotati di propria identità, ispirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso o di genere sessuale ai sensi del paragrafo 3, o da altre ragioni universalmente riconosciute come non permissibili ai sensi del diritto internazionale, collegate ad atti previsti dalle disposizioni del presente paragrafo o a crimini di competenza della Corte“.
Intolleranza
L’intolleranza è attaccamento rigido alle proprie idee e convinzioni, per cui non si ammettono in altri opinioni diverse e si cerca di impedirne la libera espressione, partendo dal presupposto dell’unicità della verità, e dalla convinzione di essere in possesso della verità stessa. È un atteggiamento improntato ad una rigida e risentita chiusura dogmatica nei confronti degli altri, che si manifesta dalle origini dell’uomo, con la sottomissione degli schiavi, le persecuzioni degli eretici, l’antisemitismo e con fatti di violenza verso i migranti e i non comunitari.
Ci sono due tipi di intolleranza: quella individuale, che si manifesta in piccole azioni circoscritte, e quella sociale, che può evolversi verso forme organizzate di ribellione, fino a condurre a vere e proprie rivoluzioni e guerre.
Qualunque sia la forma d’intolleranza, però, partiamo dal presupposto che l’uomo è sempre stato insofferente nei confronti di tutto ciò che non armonizzava col suo modello individuale e/o sociale e coi suoi egoistici interessi personali perché l’intolleranza affiora direttamente dal suo istinto egoistico-protettivo. Quindi possiamo dire che è quella reazione che si scatena nel singolo individuo (o in un gruppo di individui), quale conseguenza dell’incapacità d’accettare gli altri con le loro più o meno inevitabili interferenze, pretese o differenze, di qualsiasi tipo esse siano. In un contesto sociale o politico l’intolleranza si manifesta praticamente nella repressione o persecuzione di persone o opinioni tramite comportamenti razzisti, sessisti e in generale di avversione verso orientamenti e preferenze sessuali, posizioni religiose, politiche.
Non confondiamo, però, l’intolleranza con l’ambizione e la prepotenza. L’intolleranza è la reazione di un soggetto passivo in risposta ad un torto subìto, quando viene lesa la sua immaginaria sfera di libertà, mentre l’ambizione e la prepotenza sono comportamenti originali, attaccano per primi, senza necessariamente che siano stati provocati.
Nella nostra società occidentale ed in particolare per quanto ci è dato d’osservare nel nostro paese, l’intolleranza sta diventando un problema sempre più grave e, sul piano sociale, ha raggiunto livelli non più sopportabili a causa della convivenza tra popoli differenti ed è motivata da un’ignoranza diffusa rispetto alle persone che la società reputa diverse, perché la gente ha sempre paura dell’ignoto e di tutto ciò che è estraneo e sconosciuto.
Mentre sul piano individuale, invece, notiamo che la gente tende a chiudersi in una sfera di rapporti sempre più ristretta. Ciò potrebbe derivare dallo stile di vita: appartamento, auto, lavoro. Tutte condizioni in cui si opera in ambienti molto ristretti e chiusi, diciamo iper-protettivi. Lo stesso nucleo familiare che in passato abbracciava tutta la famiglia con le sue varie generazioni, (zie, nonni, cugini e via dicendo), oggi si riduce alla sola coppia con eventuali figli o addirittura al singolo individuo che vive da solo.
Fuori da questi ambienti i rapporti sociali si fanno più difficili, perché non ci sentiamo mai e in nessun luogo “a nostro agio” e questo ci porta a sviluppare sempre di più comportamenti di sospetto e autodifesa verso questa società sempre più eterogenea e sempre meno comprensibile.
L’uomo ha per istinto il bisogno di sentirsi attorniato da persone a lui simili e con le stesse tendenze, cioè di identificarsi costantemente con il proprio gruppo sociale d’appartenenza (il vessillo, la contrada, la squadra, il dialetto, la fede, ecc.) , ma nella nostra società di oggi predominano, invece, piccole e grandi differenze tra gli individui che la compongono e i gruppi sociali, salvo casi particolari, non sono più così evidenti e disponibili. Infatti ci sono differenze riscontrabili nei caratteri somatici, negli idiomi, nei vestiti, nelle religioni, nelle usanze, nei gusti e negli stili di vita.
In passato queste differenze erano distanti dalla nostra sfera d’azione, ma oggi invece sono rappresentate dal nostro vicino di casa, dal nostro compagno di lavoro, dalla gente che incontriamo in metropolitana o nei negozi.
A causa di questa moltitudine di modelli che ci circondano le intolleranze si possono facilmente manifestare fino alle forme più gravi di razzismo organizzato.
Ma anche nelle persone più accomodanti possiamo notare un’infinità di comportamenti che sono il sintomo di un disagio crescente verso gli altri. In molte situazioni la causa non è neppure da ricercare nelle differenze razziali. Si può essere intolleranti anche all’interno del proprio gruppo con il quale ci identifichiamo! Pensiamo alle famigerate assemblee condominiali, ove si scatenano a volte liti furibonde per delle banalità di problemi, che con un briciolo di comprensione reciproca sarebbero facilmente risolvibili. Pensiamo al fastidio di quando il nostro vicino fa una festa, interferendo così con le nostre scelte di riposare. Oggi c’è da discutere o litigare su tutto.
Tutti i rapporti sociali si basano su una semplicissima formula fondamentale: svolgere il proprio dovere per poter esercitare i propri diritti, nel rispetto dei diritti e dei doveri degli altri. E’ molto semplice il principio, ma ciascuno di noi, in più o meno larga misura, è capace di imputarlo solamente agli altri.
Microaggressioni
Distinguere una microaggressione e dargli una definizione precisa è complicato, perché dipende molto dalla percezione di ognuno. Il termine fu introdotto per la prima volta negli anni Settanta dallo psichiatra americano Chester Pierce, ma in Italia se ne discute solo da pochi anni.
Indica un comportamento sostanzialmente non malevolo, con effetti però negativi sulla persona che la riceve. Un insieme di frasi, spesso quotidiane e percepite da chi le usa come “innocue” che vengono percepite come aggressive particolarmente da membri di categorie sensibili della società.
In genere, gli studiosi dividono le microaggressioni in due tipi: le “microaggressioni aperte” , quelle che vengono compiute con il deliberato scopo di arrecare un danno, e le “microaggressioni nascoste” , quelle cioè che avvengono senza che chi le compie abbia coscienza di offendere o mettere a disagio chi le riceve.
Non si sta parlando di insulti o prese in giro dirette, dal momento che quelle sono delle aggressioni fatte e finite. Le microaggressioni condividono diversi pattern indispensabili:
- Privilegio: chi le compie, spesso, appartiene a una categoria privilegiata e le indirizza a persone appartenenti a categorie non privilegiate.
- Pregiudizio (o Bias): chi le compie pone la sua dichiarazione su un luogo comune che, molto spesso, il destinatario conosce già.
- Ripetitività: le microaggressioni sono ripetute, spesso giornaliere, nella vita di una persona che è parte di una minoranza. Pensate a quante volte una persona bisessuale si sente chiedere “quale sia il suo sesso preferito” o quante volte a una persona afro-italiana viene chiesto “da dove vieni realmente?”.
Segregazione
La segregazione è la spina dorsale di qualsiasi regime razzista. La segregazione razziale è una separazione perpetuata in nome delle razze, soprattutto come sistema applicato da governi razzisti in alcune nazioni a popolazione mista, per tenere separato l’elemento di colore, da quello bianco (nei quartieri d’abitazione, in luoghi di ritrovo, in esercizî e servizî pubblici), operando forti discriminazioni dell’uno in favore dell’altro sul piano dei diritti politici e civili (accesso a professioni e cariche pubbliche, alla frequenza di scuole, ecc.).
Ora a fronte di questo quadro di concetti, profondamente spiegati ed analizzati, come riuscireste a rispondere alla domanda posta? L’Italia è davvero un paese razzista? Penso che dobbiate rivalutare e riflettere più intimamente la facilità con cui si appiccicano etichette e si definiscono gli atteggiamenti, i pensieri espressi e le posizioni prese da qualsiasi frangia della società e da ogni singolo individuo. Quando pronunciamo, con deciso e indiscutibile vigore, la parola “razzismo“, siamo davvero sicuri di sapere a cosa ci riferiamo? O ci piace tagliare corto il discorso, per comodità, per pigrizia di analisi, per chissà quanti altri motivi, e buttare tutto in un calderone con disarmante superficialità, genericità, inqualificabile pressapochismo e faciloneria? Negare una stanza a una ragazza meridionale, rientra negli atti discriminatori, ma negare la stessa stanza ad una ragazza nera, si trasforma in razzismo. Fare giustizia picchiando una donna meridionale che voleva parcheggiare la macchina, lo si chiama sessismo e/o discriminazione, ma se la ragazza fosse meridionale, ma di origini nigeriane, diventa, inevitabilmente razzismo.
In base a quale differenziazione emettiamo tali sentenze? L’odio del tutto irrazionale e privo di fondamento che spinge una persona ad aggredirne un’altra, verbalmente o fisicamente, protetto da chissà quale status di superiorità morale e sociale, convinto di essere nel giusto, da che cosa è legittimata, veramente, una convinzione del genere? In che modo il mondo in cui si vive ogni giorno conferma e alimenta una simile credenza? L’ odio gratuito e i pregiudizi sono a volte talmente cementati nella coscienza da diventare solidi principi. Com’è che la violenza razziale sia diventata, in Italia, per i più, un fenomeno strutturale ( e non episodico) paragonabile a quello Americano? Eppure, qui in Italia, il razzismo sistemico non è radicato nella segregazione, ma, semmai, nel colonialismo e, più recentemente, nell’immigrazione. Storicamente, non abbiamo mai avuto una società polarizzata tra nero e bianco e questa è una delle ragioni per cui il razzismo sistemico può essere più difficile da identificare qui. La sua esistenza non è confermata delle statistiche suddivise per razza, come succede nel Regno Unito o negli Stati Uniti (i censimenti in Italia non chiedano alle persone la loro etnia o razza). Probabilmente c’è una mancanza di volontà dell’Italia di affrontare il suo passato coloniale e questo, agli occhi dei più, ha creato spazio per la negazione, la distorsione storica e, in ultima analisi, l’idea che gli italiani non possono essere razzisti. Ma si può confutare questo ragionamento nella prova che l’esperienza collettiva degli italiani, non bianchi, è caratterizzata dal fatto che sono raramente ascoltati. E tutte le altre vittime di discriminazione (gender, religiose….. ) sono, invece, ascoltati?
Se devo dirla tutta, il razzismo e la discriminazione razziale sono due temi in cui già intendersi sui termini è molto difficile e ogni scelta può avere conseguenze politiche e giuridiche. Ecco perché ho preso del tempo per delineare il significato etimologico, storico-sociale e antropologico, delle varie forme di intolleranza. Va innanzitutto detto, però, che la maggior parte dei casi di discriminazione razziale in Italia (e sottolineo la maggior parte dei casi, tralasciando volutamente quei casi legati agli estremismi politici, che inconfutabilmente sono basati su un’ideologia di razza- perché allora parliamo di razzismo), non ha motivazioni ideologiche, ma è l’espressione di ignoranza, paure diffuse, stereotipi, pregiudizi e, in generale, di mancanza di empatia. Ciononostante il primo passo nella lotta alla discriminazione razziale consiste nell’ammettere che questa esiste sul piano strutturale, istituzionale e individuale. Si tratta di riconoscere le sofferenze patite dalle vittime di simili atti. Necessiterebbe un lavoro di prevenzione e di sensibilizzazione, che miri a identificare i soggetti discriminatori (non capri espiatori), e instaurare, nella vita di tutti i giorni, le condizioni necessarie per evitare il prodursi di episodi di discriminazione razziale. È necessario innanzitutto dotarsi di strumenti che permettano di percepire la discriminazione razziale e di combatterla in modo costante.
Ciò che è sistemico in Italia è la discriminazione razziale, non il razzismo, e si manifesta attraverso azioni quotidiane, normalizzate e a volte inconsce. A essere più preoccupante è proprio la facilità con cui si tende ad abituarsi alla presenza di atti e pratiche discriminatorie, accettandole in quanto parti della società stessa su cui “passare sopra“. Non è la discriminazione razziale ad essere negata, sono le condizioni che la rendono possibile ad essere occultate.
Parliamo di discriminazione razziale e non di razzismo perché, per essere razzismo devono esserci motivazioni ideologiche. Così dice la sua etimologia. Così dice la storia. Così dice il pensiero politico-sociologico-antropologico che lo accompagna. E badate bene! Non vi permettete, né vi azzardate di dire e/o pensare che io stia negando la presenza di questa intolleranza in Italia. Lo scopo di questo articolo non è giudicare o fare un dibattito sulle mie opinioni, che qui nemmeno ho enunciato. Qui sto cercando di sottolineare l’incapacità di approfondire un tema così importante, e la poca attenzione che prestiamo alle parole che usiamo per definire e classificare gli atteggiamenti ed i comportamenti degli individui o della società, facendoci, con estrema faciloneria, dei voli pindarici ora verso una corrente ora verso un’altra, con un’incoscienza degna degli adolescenti più spensierati.
Qui non si tratta di sostenere o giustificare episodi di intolleranza. In qualsiasi forma o sfumatura arrivino, sono inderogabilmente da condannare e da estirpare senza se e senza ma. Si tratta, però, di dare il giusto nome a questi episodi ed a comprenderne il contesto, la storia e l’applicazione nelle varie ideologie. Non si può chiamare l’amore, amicizia, perché sono due cose completamente diverse, pur influenzandosi vicendevolmente. I temi sopra analizzati non sono opinioni, pareri o una mia relazione intima con un tema o una situazione. Sono temi che hanno una loro specifica contestualizzazione ed un significato preciso che vanno al di là della nostra abitudine ad essere approssimativi. Gli atteggiamenti discriminatori non sfociano necessariamente in atti razzisti e non hanno un fondamento ideologico. Possono però contribuire a un clima in cui le affermazioni e gli atti discriminatori sono più facilmente tollerati o approvati, anche se restano estranei alla prassi della maggioranza della popolazione. Ed, ovviamente, non vi è nemmeno bisogno di dirlo, sono inammissibili.
Attenzione anche nel discutere la valorizzazione delle differenze, perché, se estremizzato e non ben argomentato diventa un terreno scivoloso. In realtà dovremmo mettere in risalto le differenze che riguardano le identità delle persone. Se prendiamo la Società italiana, possiamo tutti concordare che essa ha un un’identità meticcia. Riconoscendo e rivendicando questo aspetto, per esempio, le differenze acquistano un valore. Riferirsi al razzismo come un grande contenitore in cui ci sta dentro l’afrofobia, l’omofobia, le discriminazioni contro le donne, i disabili e via dicendo, determina il completo fallimento delle lotte antirazziste, perché incapace di dare un taglio netto a questa contrapposizione bianco/nero, dove al nero viene negato il desiderio di essere ANCHE qualche cos’altro e il bianco continua a sentirsi detentore del potere, che ha a che vedere non solo con il dominio e lo sfruttamento, ma, più semplicemente, con un privilegio di status ottenuto per il solo fatto di avere la pelle più chiara.
@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy , MBA Metissage & Métissage Sangue Misto. Mi trovi anche sul Canale Telegram, e su ClubHouse come @wizzylu.