Quando l’odio etnico e la misoginia fanno l’en plein.

Trovo che la dicitura ed il quesito che accompagna questa fotografia, costruita ad hoc dal sito “Besti.it” , sia di una volgarità inqualificabile. Cosa significa “voi ci uscireste fuori a cena?” Cosa si trova, realmente, tra le pieghe di questa domanda rivolta, immagino, al pubblico maschile?

 

Armine Harutyunyan è una modella armena, il nuovo volto di Gucci, dicono in molti, in realtà ha solo partecipato ad una sfilata. Nella Fashion Week dello scorso settembre, sulla passerella Gucci, le modelle erano chiamate ad interpretare ed a sensibilizzare, attraverso gli abiti,  il mondo delle malattie mentali; occasione che avrebbe dovuto ispirare una discussione sulla mercificazione di una seria questione sociale e che, invece, ha provocato una serie di spiacevoli reazioni, di indignazione nel suo paese d’origine e costernazione per non essere abbastanza attraente da far parte dell’industria della moda, tanto meno ad una sfilata di Gucci.

 

In un mondo dove le modelle sono troppo magre, troppo alte, troppo belle, troppo perfette, troppo pagate, con personalità dettata dalle esigenze di mercato…… dove non vi è spazio per alcuna emozione, perché nella loro bellezza inavvicinabile, sfilano coperte con abiti che dovrebbero assorbire tutta l’attenzione del pubblico, esce lei, con un volto che sembra essere fuori contesto, con una bellezza lontana dai canoni estetici che seducono e che obbligano ogni donna ad attenersi.

 

La violenza verbale, alimentata dal web e da alcuni media, si è concentrata tutta sul suo aspetto fisico e sull’armenofobia tipica della società georgiana. Invece, avrebbero dovuto approfittare di questa “novità” per sostenere una società in cui ogni individuo dovrebbe essere messo allo stesso livello, nonostante le proprie diversità.

 

Molti dei commenti hanno sottolineato il fatto che un aspetto che si discosta dalle norme tradizionali non potrebbe essere né bello né femminile, come se gli standard di bellezza fossero un qualcosa di tangibilmente rilevabile.

Picture Credit: CEN/ @deararmine

 

Come può qualcuno avere una relazione con lei?” Si legge in un commento, sottolineando l’opinione diffusa che il valore e la sessualità di una donna siano legati al loro valore e alla subordinazione ai desideri degli uomini. O, ancora, “Ma è davvero una donna?”, commento alquanto disumanizzante,  tipico stereotipo maschilista (usato a random anche da parecchie donne!), che mal si sposa con la capacità di intravedere uno sguardo che ha bisogno di raccontarci storie che non vogliamo sentire, di andare oltre la convenzionalità di un corpo perfetto. Poi arrivano i commenti delle donne …… assolutamente le peggiori: “Sta diventando stranamente normale mettere la bruttezza sul piedistallo“, “E’ disgustosa“, ” Sei peggio di una strega. Dovresti recitare in film dell’orrore, non avresti nemmeno bisogno di truccarti“.

 

Trovo che Armine sia una di quelle donne in grado ci condurci in riflessioni da cui fuggiamo ogni singolo giorno; ci costringe a rifletterci e a guardarci nello specchio con occhi spogli dai pregiudizi e dalle false aspettative che abbiamo per il mondo della perfezione. Ci obbliga a fare i conti con la tendenza al giudizio e allo sdegno facile, alla polemica, alla cattiveria gratuita e a tutti quegli stereotipi che cerchiamo di nascondere sotto il tappeto, ma che, in momenti di pura verità, non ci facciamo problemi a dichiarare come un trofeo di guerra, magari in cerca dei scontati e banali “mi piace” o di click compiacenti.

 

Picture Credit: CEN/ @deararmine

A questa ragazza ventitreenne, che è pure una illustratrice ed una graphic designer, è stato cucito addosso un abito intriso di superficialità, sessismo e pregiudizio velenoso, tipici di chi, incapace di valorizzare se stesso, ritiene che nella bruttezza degli altri possa scorgere la propria perfezione. Non tiene conto, però, del fatto che l’espressione di critica, così violenta, crea dei muri impraticabili, fatti di illusioni che fanno sentire, momentaneamente, al sicuro, ma che nutrono un ego rancoroso, disprezzando l’esistenza degli altri e non riconoscendo il valore come essere umano.

 

Che cosa stiamo realmente guardando quando osserviamo questa ragazza? Giudichiamo il suo volto brutto, orrendo, inqualificabile per il mondo femminile, ma esattamente cos’è che stiamo guardando e valutando? Se è vero che il volto, e le sue espressioni, sono uno dei principali mezzi che l’uomo ha per comunicare con l’esterno, grazie alla prossemica (cioè il modo in cui occupiamo lo “spazio personale e sociale“), la gestualità e, appunto, le espressioni facciali (secondo Ekman sono sei e sono il disgusto, la rabbia, la felicità, la paura, la tristezza e la sorpresa), e che, queste stesse espressioni facciali sono universalmente riconosciute all’interno di culture diverse, quali sono gli elementi che consideriamo quando guardiamo Armine e che ci portano a dare un giudizio estetico di tale portata, per cui essere brutti è considerata un’infamia peggiore che essere stupidi?

 

Che cos’è che fa percepire un senso di inferiorità estetica nella vita di tutti i giorni, in una società che ha il culto della palestra e della dieta salutista, in cui gli ideali a cui aspirare sono le inavvicinabili star della passerella e del grande schermo? E quando tra questi ideali si insinua una forma di bellezza diversa dallo stereotipo fin qui adottato, perchè si fatica a combattere il bullismo e non si riesce a prendere coscienza dei danni del body shaming? Perché, nonostante ci si sforzi di essere inclusivi e si iniziano finalmente a diffondere, anche nella moda, esempi di corpi reali, di tutte le taglie e di tutti i colori, siamo ancora ancorati alla superficialità nel giudicare e decidere, da una semplice foto sul social,  se scartare irrimediabilmente qualcuno per una relazione o se, al contrario, concedergli una chance? Perché ai bambini si fanno i complimenti per la loro bellezza e non per la loro perspicacia?

Che il giudizio estetico continui ad avere un grosso peso è chiaro, e negarlo sarebbe ipocrita, ma si attribuisce la stessa importanza a un giudizio sulle capacità intellettive di qualcuno? Qualcuno, guardando questa ragazza, ha notato la profondità dei suoi occhi scuri? L’espressione di un volto che ha una storia da raccontare? Le capacità artistiche di cui ha grande talento?

 

Sono dell’idea che ci sia molto lavoro da fare nel nostro modo di relazionarci agli altri e che debba iniziare da un apertura verso il mondo e non nel continuare a coltivare idee e concetti costruiti, su nostra misura, dalla nostra percezione del mondo e  dal nostro ego. A un livello superficiale di conoscenza – che è poi quello che lega la maggior parte delle persone che si incrociano più o meno casualmente nel corso della vita -, quando un individuo non ha tratti somatici nella media è come se l’interezza della sua persona fosse definita da una sola caratteristica, che sia il naso grosso o la bocca grande, con il risultato di trasformare l’umanità in un esercito di insicuri cronici alla costante ricerca di un corpo tonico, di una pelle giovane e di un sorriso luminoso. Nella società dell’apparenza, laddove non c’è bellezza, ci sono frustrazioni e rancori.

 

C’è una facilità con cui si reputa brutto tutto ciò che si discosta dai canoni universalmente accettati e dominanti nei media, in particolare per quanto riguarda l’aspetto delle donne. Tutto ciò che si allontana da un’ideale e irrealistica perfezione e ci ricorda che siamo esseri umani, con peli, cellulite, cicatrici, smagliature, lentiggini, doppio mento e occhiaie, mette a disagio e va censurato in quanto tabù, e i commenti sui social ne sono chiara dimostrazione. Persino le pubblicità dalle finalità inclusive, come quelle di noti marchi di prodotti di cura del corpo che mostrano donne di etnie e taglie diverse e con segni particolari come le lentiggini, si inseriscono nella narrazione del tabù della bruttezza, confermandolo anziché scardinandolo. Invece di rivendicare un nuovo canone che ridimensioni l’importanza dell’aspetto esteriore in favore di un maggiore benessere fisico e psicologico, si convoglia il messaggio “tutte le donne sono belle”: la bellezza è ancora una volta l’obiettivo più desiderabile. Abbiamo un valore se siamo belli, quindi scoprire di essere belli o più belli di quanto noi stessi ci giudichiamo, ci rende felici. Il vero messaggio dovrebbe essere: sentiti bene e a tuo agio con il tuo corpo, sii sano, non importa se corrispondi o meno ai canoni per i quali si è reputati belli. Ma forse non venderebbe molto.

Artist: Armine Harutyunyan

 

Lo stigma sociale della bruttezza è un vero e proprio tabù, anche se la maggior parte di noi finge di dimenticarselo, e non è assolutamente da sottovalutare. Dal momento che il concetto di “brutto” lo possiamo appiccicare, praticamente, a qualsiasi cosa, la parola ci dà indizi più sull’osservatore che sull’osservato. Quando chiamiamo qualcosa ‘brutto’, diciamo qualcosa su noi stessi e su ciò che temiamo. In altre culture, questo concetto assume significati positivi; per esempio, l’idea di giapponese wabi-sabi, che significa imperfezione e impermanenza, è legato a qualità che potrebbero essere ritenute ‘brutte’ in un’altra cultura.

 

Posso solo dire che l’unica arma che le persone bullizzate sul tema della “bruttezza”,  hanno contro il giudizio degli altri, è la loro autostima. Quando sono consapevoli dei loro difetti e riescono a vedere quelli delle persone che stanno loro attorno, sanno di potersi accettare nella totalità, senza bisogno dell’approvazione di nessuno. Per dirla alla Victor Hugo, il bello è “semplicemente un forma ritenuta nel suo aspetto più semplice’” mentre il brutto è “un dettaglio di un complesso che ci sfugge e che è in armonia, non con l’uomo, ma con tutta la creazione”.

 

@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy ,  MBA Metissage & Métissage SangueMisto. 

 

Archivio