Sono Bi-Tutto: dicotomie, ambiguità e capacità di essere incredibilmente flessibili.

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Ieri, una mia amica carissima, commentando, privatamente, una foto che avevo pubblicato su FB, ha esordito con un splendido “Amica mia, tu passi dalla Converse a Louboutin come se nulla fosse”.

Sembrerà, agli occhi dei più, una frase piuttosto sciocca e superficiale, ma per chi mi conosce bene, sa che non vi è assolutamente nulla di fuorviante né snob in quella descrizione. Trovo sia un complimento molto forte e decisamente amorevole, molto rappresentativa del mio essere multidimensionale, con profondità e interessi che vanno oltre il colore della pelle, i modelli high class o i discorsi retorici triti e ritriti.

Per il volgo, essere accettata in un gruppo sociale, significa scegliere cosa essere, con fermezza, perché, se, disgraziatamente sei in grado di essere cento cose contemporaneamente, passi per confusa, incoerente, esagerata e forzatamente anticonformista.

No, cari miei! Sorpresona!!!! Oggi vi racconto (parzialmente… mooolto parzialmente) cosa significa essere DAVVERO bi-multi-tutto. Aprite bene i vostri immensi padiglioni, strabuzzate per bene quegli occhioni da cerbiattoni, chiudete per un solo secondo le vostre fameliche fauci, e sintonizzate i vostri neuroni su una frequenza un tantino più alta di quello in cui siete abituati a fluttuare, con un apatia degna di un bradipo in totale trans.

 

Parlo correttamente e interamente, con lo stesso livello,  l’inglese e l’italiano, con un accento che cambia in base a chi mi trovo davanti, con parole intersecate, ora in una lingua, ora nell’altra, con una semplicità e naturalezza che non troverai in nessuno altro, se non in persone PERFETTAMENTE bi-tri-quattro-lingui. A dirla tutta, mi dimentico spesso le parole precise di una lingua in corso di esposizione (sarà anche l’età eh??), e, sempre con gran naturalezza, chiamo in soccorso tutte le altre lingue (le volete chiamare idiomi? per me sono lingue, voi fate come ve pare!) che conosco: il francese maccheronico,  il dialetto Vittoriese, il Pidgin Nigeriano, l’Igbo ed uno spruzzo di Yoruba, che con la mia innata gestualità, riesco a salvarmi, in cornea, in quei terribili secondi in cui devi trovare una soluzione linguistica adatta al caso J Che cosa chiamate questo? Confusione? Eh certo! Perché non è come siete abituati a vedere il mondo. Io la chiamo. semplicemente, capacità acutissima di problem-solving e capacità di velocizzare le idee ed i concetti, vivisezionandoli nell’arco di secondi. Voi ce l’avete sta capacità?

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Allo stesso modo mi vesto in base ad un mio concetto di mixage che va ben oltre quello che detta la moda, lo status sociale o il cliché “scegliamo attentamente gli abiti da indossare per segnalare la nostra identità agli altri e fornire sufficienti informazioni per farci conoscere e riconoscere“. Niente di più falso e strafottente in questa cosa. Per lo meno per la sottoscritta. Innanzitutto: perché è così importante “segnalare la nostra identità agli altri“? Voglio dire …. è una questione fondamentale mandare messaggi, più o meno impliciti, di ciò che siamo? E’ davvero necessario allestire una sorta di palcoscenico, in cui presentare noi stessi con rappresentazioni  teatrali, attraverso abiti e accessori, in cui mettiamo in scena la realtà (vera o presunta) o la fantasia? E’ davvero necessario usare il nostro modello identitario, gli atteggiamenti interpersonali e gli obiettivi per presentare noi stessi ad un pubblico sconosciuto? Cosa vogliamo davvero comunicare con questo? Ci avete mai riflettuto, per un attimo?

 

Dire che gli abiti e gli accessori parlano di noi, ha sì un fondo di verità, perché comunque sono come una seconda pelle, un io-pelle (una pelle mentale) che contiene tutte le nostre parti buone, un’ interfaccia con gli altri e una barriera di difesa. E’ altrettanto innegabile che siano un’ estensione del nostro “sé”, che ci permette di portare all’esterno ciò che sentiamo dentro, e anche di comunicare alcuni aspetti  e coprirne altri, manipolando la nostra immagine per avvicinarla al nostro ideale. Ma il mio disappunto sta proprio in quest’idea di considerare il nostro agghindarci come una “manipolazione”. Io, personalmente, amo mescolare, sconvolgere quello che è il dictat di un modo di essere “ufficiale”; e non lo faccio perché voglio essere qualcosa di diverso da quello che sono, un’anticonformista o un bastian contrario. Lo faccio, semplicemente e banalmente, perché sono così. Non ho bisogno di indossare un frac per andare ad un evento importante che lo richiede; se dovesse essere una questione di vita o di morte, troverei comunque un compromesso: ok per il frac ma diventa un must aggiungere la Converse glitterata. E niente o nessuno potrebbe opinare su quella scelta, perché significherebbe negare ciò che sono e non darmi la libertà di esprimere la mia natura. Mi hai dato un etiquette e l’ho rispettato, omaggiando la tua volontà.  Tu fai altrettanto apprezzando il mio sforzo e permettimi uno spiraglio in cui possa auto-determinarmi. Qualcuno, tanto tempo fa, mi disse una frase che mi piacque immediatamente molto e cioè che “il corpo, è come una frase che può essere spezzata in parti indipendenti, in modo tale che il suo vero contenuto possa essere rimesso insieme in una serie infinita di anagrammi”. Ecco! giocare con quegli anagrammi è qualcosa che trovo davvero appassionante e calzante alla pluralità del mio modo di essere.

Se per la maggior parte delle persone, parlare con gli abiti significa proclamare o mascherare la propria identità personale e sociale, le proprie emozioni, i propri desideri, dire al mondo intero (e a se stessi) chi sono o come vorrebbero essere, per me diventa, sobriamente, uno stare in equilibrio tra tutte le sfaccettature di cui è composto il mio sé reale, ideale e imperativo. Ho sviluppato sin dall’infanzia una consapevolezza ed un accrescimento dell’autostima molto forte, significantemente forte da non indurmi ad elemosinare qualcosa di esterno (nella fattispecie, di moda parliamo!) per definire la mia identità o raggiungere i miei obiettivi.

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E che dire, poi, della capacità di essere persone flessibili ed avere uno spirito di adattamento ben marcato?

Come persone bi-tutto, ci troviamo privilegiati in una posizione intermedia, ed anche se questa stessa posizione risulta essere molto più complessa di quello che si può pensare,  i vantaggi superano di gran lunga quelle che possono essere le sfide più toste, come il subire stereotipi, rifiuti e discriminazioni da più gruppi etnici. Affrontiamo il più alto tasso di esclusione da qualsiasi gruppo sociale, perché non siamo mai abbastanza neri, abbastanza bianchi, abbastanza asiatici, abbastanza latini. Molti di noi si inchinano e si prostrano al punto più estremo, pur di farsi accettare da una qualsiasi i questi gruppi sociali. Questo lo trovo un atteggiamento riprovevole, perché sottintende il fatto che non si ha acquisito sufficiente consapevolezza della propria persona e, conseguentemente, dell’identità che la compone.

Quando parlo di adattamento e flessibilità intendo dare grande l’importanza allo sviluppo di una consapevolezza capace di identificarsi come persone bi-multi-etnici, acquisendo maggiore autostima, benessere psico-fisico e impegno sociale. Chi si definisce nero o bianco non ha sviluppato sufficiente consapevolezza da spingerlo a guardarsi nello specchio e chiedersi “cosa i suoi occhi vedono riflesso lì”. Siamo multi-etnici ed una volta compreso questo, risulterà più naturale abbracciare (ed accettare) la propria pluralità.

Io (e come me, molti bi-etnici) ho sviluppato una flessibilità mentale invidiabile, perché ho imparato, fin da piccola, a passare, indistintamente, senza soluzione di continuità, tra le mie identità etniche; ho sviluppato maggiori capacità creative di risoluzione dei problemi, rispetto agli altri bambini mono – etnici, e, questo, lo devo a quell’immenso uomo che era mio padre, perché mi ha sempre preparata a pensare in anticipo alla mia identità multipla, al fatto che sono nella posizione di poter sfruttare tutto ciò che la vita/natura/esperienza mi aveva equipaggiato e che tutto quel bagaglio mi avrebbe accompagnata fino alla fine dei miei giorni, quindi avrei dovuto saperla usare nel migliore dei modi. .

Dite la verità, voi mono – etnici. Non vi siete accorti di come stare accanto a persone multi-etnici, vi porti un’energia particolare, vi sprona ad aumentare la vostra creatività, il vostro bisogno di conoscenza e renda il vostro pensiero più agile? Lo dice pure una ricerca condotta dalla psicologa Kristin Pauker, dell’Università delle Hawaii: asserisce, infatti che le persone sono dei compartimenti per natura,  e,  etichettare gli altri per categoria sociale fa parte del modo in cui diamo un senso alle nostre interazioni.  La “razza” è una di queste categorie. Le persone  hanno storicamente fatto affidamento su questo per decidere se classificare qualcuno come “all’interno del gruppo” o “fuori dal gruppo”. Volti “razzialmente ambigui”, tuttavia, ostacolano questo approccio essenzialista. E questa, ovviamente, è un bel punto a nostro favore!  La Pauker, inoltre, scoprì che il solo fatto di essere esposti a una popolazione più diversificata – come spesso accade quando, per esempio,  gli studenti si trasferiscono dagli Stati Uniti continentale alle Hawaii per il college – porta a una riduzione dell’essenzialismo razziale. Ammorbidisce anche i bordi netti della divisione all’interno del gruppo e all’esterno del gruppo, portando a atteggiamenti più egualitari e un’apertura a persone che altrimenti potrebbero essere state considerate parte del gruppo esterno. Gli studenti le cui idee si sono evolute di più, tuttavia, erano quelli che erano andati oltre la semplice esposizione alla diversità e avevano anche creato diverse reti di conoscenza. “Non stiamo necessariamente parlando dei loro amici più cari, ma delle persone che hanno iniziato a conoscere“, afferma. Cosa ci mostra questo? “Per cambiare gli atteggiamenti razziali, non è solo l’essere in un ambiente diverso e immergersi nelle cose che fa la differenza: devi formulare relazioni con membri esterni al gruppo“.

E’ un dato di fatto come le dure conversazioni sulla “razza” ci stia portando tutti verso una società egualitaria, se non altro, questo è l’auspicio. Come è altrettanto lampante come stare con persone bi-multi-etnici rende meno propensi a sostenere la tesi del “color-blind” (una forma di daltonismo indotto che non fa distinguere i colori – e le relative sfumature – alle persone che vogliono a tutti i costi essere politicamente corretti. Frasi come “siamo tutti uguali”, “non vedo alcuna differenza di colore” ecc …. sono il perno attorno a cui queste persone fanno ruotare le loro discussioni sulla “razza”). Ci si trova a proprio agio a discutere di questioni che altrimenti si sarebbero evitati, e questo è una nota positiva, perché, in un certo qual senso, si spingerà i mono – etnici a riflettere e parlare, in modo più attento, di questi temi di accettazione e adattamento sociale. Con questo, non voglio dire che, come multi-etnici, siamo la panacea di tutti i mali coniugati sotto la parola “razzismo”. No! Dico semplicemente che, essendo i nostri atteggiamenti e le nostre identità malleabili, siamo un bel punto di partenza (ed imparziale) da cui salpare per indurre le persone a riflettere su ciò che la “razza” può significare o meno e intavolare discussioni più aperte e oneste. Esporci  a persone diverse è il modo migliore per promuovere l’inclusione – e l’effetto collaterale è che possiamo anche trarne un beneficio cognitivo. Se iniziamo a riconoscere che tutti abbiamo più identità, possiamo essere tutti più flessibili e creativi.

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Sono semplicemente una raccolta di esperienze (come tutti in questo pianeta) ma queste stesse esperienze si differenziano dalla maggior parte dei mono – etnici perché sono il prodotto di più culture, più tradizioni, più storie, più tradizioni, più occasioni e hanno avuto luogo tra società diverse ed in luoghi diversi. Per questo sono cittadina del mondo; non ho alcun senso di appartenenza, ma piuttosto il mio essere è stratificato, frammentato, disgiunto e in qualche modo fuso in uno. Alcuni livelli sono contenti e prosperano in determinati luoghi e spazi, ma non in altri. C’è sempre una parte di me che sboccia e una che rimane inattiva.

La mia storia è fatta di moltitudini.

La mia storia è dialettica: potere bianco, privilegio bianco, potere nero, privilegio nero (ehhhh sì.. esiste anche questo, che chè ne sia!!! Rifletteteci bene!), resilienza, empatia …. Io sono lo spazio liminale (fatto o fenomeno al livello della soglia della coscienza e della percezione; in antropologia è la qualità dell’ambiguità o del disorientamento che si verifica nella fase intermedia di un rito di passaggio, quando i partecipanti non mantengono più il loro stato pre-rituale ma non hanno ancora iniziato la transizione allo stato che terranno quando il rito è completare) in mezzo.

A me, personalmente, non infastidiscono le classiche domande “cosa sei” o “da dove vieni?”, perché le considero un modo, come un altro, per intavolare un discorso di conoscenza reciproca ed una conversazione che altrimenti non avrebbe permesso alle parti di interagire. Ciò che realmente mi infastidisce è l’intenzione con cui vengono poste queste domande. Quando quel “cosa sei” o “da dove vieni” viene usato per rimarcare che “ahhh! allora sei straniera!” , “ahhh mi sembrava che non eri da qua”, “ahhhh ma non sei proprio italiana, italiana”…. Ecco! In questi frangenti mi sembrano domande piuttosto offensive ed a dir poco inopportune. E, fatte notare, di solito, si finisce in una piacevole conversazione, senza attriti o risentimenti incomprensibili.

Aggiungo anche che l’idea che noi bi-multi-etnici ci facciamo sulla percezione che gli altri hanno di noi, è, sì, un argomento molto complesso, ma è giunto il momento di affrontarlo con immenso coraggio e determinazione. Dire “sto bene così” o “mi identifico come nera/bianca”, non è più sufficiente e non fa che allargare la voragine in cui il sistema vorrebbe collocarci, in un modo o nell’altro.

Non ci salva dal fatto che, volente o nolente, il concetto di “razza” (in virgolette fin che volete, ma, per questa generazione, ha ancora il suo significato ben chiaro e vivido) influenza le nostre percezioni e come gli altri si atteggiano con noi.  Ignorare la “razza” (ed il suo bagaglio), con piglio da sovversivi e correttori della storia,  fa sì che le attuali disuguaglianze razziali continuino imperterrite per il loro vecchio schema. Ignorare che “la razza” sia un problema posto sia da bianchi che da neri, ti pone nella condizione di non poter affrontare la questione, perché dimostra che non riconosci la sua realtà in modo abbastanza forte.

Sia i bianchi che i neri hanno l’impressione che parlare con una persona mista di questo tema sia più facile ed accomodante, perché ci percepiscono meno minacciosi. Sapere che apparteniamo contemporaneamente a due gruppi razziali, potrebbe indurli ad assumere che le persone bi-etniche vogliano effettivamente discutere sulla “razza” da una prospettiva di identità, piuttosto che da una prospettiva di disparità di potere. E questo rende agevolmente aperta la porta della conversazione onesta, leale e pragmatica. Siamo presi da meno stereotipi o aspettative, e nello stesso tempo, la nostra pluralità crea un senso di curiosità per il nostro background ed esperienza razziale, aumentando il conforto e la volontà di parlare delle relazioni razziali in modo più ampio.

Quindi sì! Tornando, banalmente a noi, io passo dalle Converse alle Louboutin con una facilità strabiliante, come combino Converse ad un elegante abito da sera, senza nemmeno battere ciglio. Non certo per sentirmi “diversa” (lo lo sono già, volente o nolente), ma perché io sono questo. Una moltitudine di cose. Una molteplicità di identità che mi dà il lusso di esprimermi come diamine voglio senza l’estremo bisogno di essere accettata da chicchessia. Esattamente come una persona qualsiasi, con tutto il suo bagaglio identitario. Mi spiace che ci si concentri sul nostro essere da un punto di vista sociale anziché individuale/psicologico; che ci si veda come mediatori di un mondo visto come intrinsecamente e irreversibilmente diviso, mettendoci nella posizione di dover imparare a camminare abilmente tra mondi considerati multipli, piuttosto che, pacificamente, attraverso un mondo che viviamo come individui.

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Ringrazio le mie carissime amiche Silvia e Paola per la concessione di questa foto, in cui la mia moltitudine è ben rappresentata e l’energia identitaria con cui affronto la vita stessa è traducibile in gesti apparentemente semplici  e spensierati…..

Ho deciso, da parecchio tempo, prima con i miei, e, solo recentemente, con questo blog, di “insegnare” anche ai ragazzi bi-multi-tutto, come passare,  con elegante nonchalance, dalle Louboutin alle Converse, e come andarne fieri. Dovrebbero farlo anche tutti i genitori di figli bi-multi-tutto, parlando ai loro figli del loro retaggio culturale, che sia positivo o negativo. Non avete la più pallida idea di che sorta di road-map riuscirete a tracciare verso il cambiamento culturale di questo paese. Darete loro gli strumenti per conciliare antichi conflitti razziali, compresi i conflitti nella propria identità. Insegnerete loro che il passato è noto, ma il futuro è libero, non ancora scritto e tutto dipendente da loro. Questa idea, da sola, può plasmare una generazione intera e rendere il pregiudizio un ricordo del passato.

In barba alle Converse. In barba alle Louboutin.

 

@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy ,  MBA Metissage & Métissage SangueMisto. 

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