See on Scoop.it – THE ONE DROP RULE – LA REGOLA DELLA GOCCIA UNICA
Quella che oggi vi voglio raccontare è una storia con la “S” maiuscola. Non è la solita storiella di aiuti umanitari con shoots pubblicitari da “paesi del terzo mondo” (forse quarto, da chi piace strumentalizzare la faccenda) o da pietismo estirpato a suon di immagini costruite ad hoc..
Siamo in Africa Occidentale, Nigeria, il paese più popoloso dell’intera Africa, un colosso di petrolio e materie prime., ma altrettanto irrequieto, instabile e problematico.
Nel 2006 inizia una meravigliosa favola: due donne italiane, friulane, di Spilimbergo (Pordenone), Caterina Bortolussi, 33 anni, stilista, e Francesca Rosset, 31 anni, esperta di marketing. decidono di realizzare concretamente un’idea maturata in anni di esperienze lavorative dal risvolto piuttosto stretto. Caterina, in particolare, laureata in Economia all’Università di Udine, lavorava a Londra per la banca di investimento Barclays Capital, ma la sua vita aveva un sapore piuttosto grigio. Amava la moda, il design, le tinte accese, la creatività, lo stile funky e non passava di certo inosservata nei ventiquattro piani della società. Francesca aveva un’esperienza alle spalle come direttore clienti alla McCann Erikson nelle sedi di Barcellona, Milano e Sao Paulo. Sei anni fa , ambedue capitano in Nigeria come dipendenti delle rispettive Società.
Decidono di rimanerci, perché fiutano una miriade di opportunità esattamente in quell’ambito che sempre avevano sognato: disegnare abiti e la moda. Iniziare non è facile in un paese così, tanto meno se sei donna e bianca. Dice Caterina: «Mi resi conto subito della vitalità e creatività di questo paese e di quanto poteva offrirmi. I colori, la felicità della gente, la fede in Dio e nell’uomo, il vivere il presente: l’Africa è un continente speciale e la Nigeria è decisamente il paese più interessante e intenso. Ho capito che qui potevo, e dovevo, realizzare il mio sogno».
Così, nel 2010, aprono un piccolo laboratorio, che all’inizio è una stanza della casa in cui abitano. Due sarti e un primo giro di clienti che sono amiche e amiche delle amiche.
«Quando abbiamo cominciato – continua Caterina – non sapevamo nulla di moda, non avevamo mai visto un atelier e mai preso in mano una macchina da cucire. Qui non è facile trovare i fondi per finanziarsi e far crescere l’impresa, i costi di start-up sono altissimi. Ma il nostro sogno era più grande di qualsiasi dubbio, abbiamo entrambe lasciato tutto per seguirlo. E, pur tra tante difficoltà, siamo riuscite, con i nostri vestiti e i nostri progetti sociali, a conquistare il cuore della gente in Nigeria e nel mondo. La svolta la stiamo costruendo giorno per giorno, con molta pazienza e amore».
Così inizia un grande sogno. Danno vita ad un’esperienza imprenditoriale e sociale. Nasce il marchio “KINABUTI”. Nome al quanto curioso, ma semplice da spiegare. E’ come Caterina Bortolussi pronunciava il suo nome quando era bambina. Kina per Caterina e Buti per Bortolussi.
Disegnano e producono vestiti per le celebrità, e li fanno indossare in passerella da ragazze dei quartieri degradati di Port Harcourt, la capitale del Delta del Niger, alle quali hanno insegnato il mestiere di modelle.
E sì, perché proprio qui sta la differenza. Il loro progetto mira ad usare la moda come strumento per lo sviluppo. Precisamente. La produzione viene fatta in loco creando posti di lavoro a tutti i livelli. Nascono così sarti e sarte professionisti; ragazze selezionate dalle zone più degradate a cui vengono date borse di studio per la formazione professionale e vengono trasformate in modelle professioniste; donne formate alla professione di make-up artists e tutta una serie di figure professionali necessarie alla composizione di una impresa.
Il progetto l’hanno intitolato “In our ghetto”, una sorta di scouting nelle comunità di Bundu, Marine Base, Okrika e Agri Estate, dove la miseria è estrema, il caldo asfissiante e gli occidentali sono considerati prede da sequestro. Da qui sono uscite le ventun ragazze che oggi, a due anni dall’inizio dell’esperienza, sono le top model della Nigeria. Sfilano per importanti designers, partecipano a pubblicità e servizi fotografici a livello internazionale, e lavorano come hostess e promoter di vari marchi. Quelle fra loro che già frequentavano la scuola hanno ricevuto delle borse di studio per continuare i propri studi.
La filosofia del marchio è quella di entrare in contatto con le comunità locali e offrire opportunità e formazione a chi ne avesse più bisogno. Le “Kinabuti girls” hanno imparato a truccarsi, a pettinarsi, a sfilare e posare, hanno ottenuto un lavoro che, per un singolo evento, può fruttare tra gli 80 e i 200 euro a testa, in un paese dove il settantacinque per cento della popolazione vive con un euro e mezzo al giorno. Bertha, vent’anni, oggi è una modella a tempo pieno, lavora a Lagos e con i soldi guadagnati mantiene il figlio di 5 anni e la famiglia. Con Benita ed Ebi, ha posato per Vogue Italia e per diverse copertine di magazine nigeriani, oltre a partecipare al primo spot che Martini ha girato in Africa. Tombo e Queen lavorano per Kinabuti come “designer assistants” e hanno ottenuto una borsa di studio per l’Università di Lagos. Le loro storie sono diventate un film- documentario, presentato alla mostra di Venezia dell’anno scorso. “In our ghetto”, firmato dal regista svedese Marcus Werner Hed, ha seguito le ragazze per tre settimane mentre si preparavano a una sfilata.
Essendo stata un’iniziativa di enorme successo e di grande ispirazione, “In Our Ghetto” ha ricevuto anche grossi riconoscimenti da parte dei maggiori decision makers, ed è anche apparso sulla CNN.
Viene pubblicato per intero il look book di Kinabuti, che inizia con la collezione intitolata Bicycle Thieves (Ladri di biciclette). Le fotografie sono state scattate da Massimo Sciacca in varie località della Nigeria, e mostrano le ragazze che partecipano al progetto”In Our Ghetto”.
Una delle loro collezioni si chiama si chiama “Kinabuti Vlisco Jez collection” ed è ispirata alla campagna, ai paesaggi rustici, agli arcobaleni, alla natura. «Siamo cresciute in un paese circondato da campi. I miei nonni – ricorda Caterina – lavoravano la terra, mio padre commerciava bestiame. Con questi abiti intendiamo celebrare dove il sogno è cominciato, le nostre famiglie e i valori che ci hanno trasmesso». Tra questi, il rispetto per se stessi e per il proprio ambiente. Ecco perchè “Kinabuti” ha avviato un’attività ecologica di pulizia dei ghetti, insieme alle autorità del territorio. Si &
egrave; aperto così un dialogo con il governo locale e ora anche nelle comunità emarginate e pericolose del Waterfront, dove la tensione sociale è altissima, passa il camion della raccolta rifiuti.
Hanno pure iniziato un percorso di formazione al cucito per donne e uomini del Niger Delta che così saranno inseriti nelle linee produttive del brand.
“Kinabuti” firma abiti dallo stile italiano tagliati su stoffe africane come l’ankara, tipico tessuto dell’Africa Occidentale. Collezioni donna e uomo, per una clientela che non ha problemi di soldi.
«Abbiamo un discreto giro di clienti e amici – spiegano Caterina e Francesca – nigeriani, libanesi, indiani, italiani, spagnoli. Kinabuti, ci dicono, non è solo una marca ma un modo di vivere». . Che piace ad autentiche star, tra cui Genevieve Nnaji, la più grande attrice africana, la collega nigeriana Rita Dominic, la cantante Nneka, voce di Lenny Kravitz e Damien Marley, il rapper Pras dei Fugees. Tra poco, sperano, un outfit “Kinabuti” vestirà la celebre anchorwoman Oprah Winfrey, una delle opinion leader più influenti d’America.
«Vogliamo rimanere qui – dicono Caterina e Francesca – perchè pensiamo di essere al posto giusto nel momento giusto. L’Africa è il futuro e il World Economic Forum ha identificato la moda come uno dei settori che può guidare lo sviluppo del continente. Non appena riusciremo ad aumentare la produzione, puntiamo a esportare in Europa, America e Sudafrica. Siamo italiane ma viviamo in Nigeria e quello che ne esce è davvero unico. E poi ci piacerebbe vestire Gwen Stefani, Jennifer Lopez e Madonna».
– Che dire? Celebrano le donne che amano vestirsi in modo eclettico ed innovativo (di solito “emarginate” da una riservata cerchia di benpensanti ed amanti dell’essential”), ma riescono pure ad incarnare una moltitudine di donne, “classiche, ma piene di giovinezza, sexy e riservate insieme, vibranti e al contempo sofisticate”; creano sviluppo economico in modo sostenibile ed etico e ridanno potere alle persone, soprattutto potere sociale alle donne fornendo loro tutto il supporto psicologico e sociale necessario; incoraggiano l’emancipazione e l’imprenditorialità in una zona dove il rispetto delle regole non è proprio all’ordine del giorno.; ricercano in zone inesplorate e disagiatissime bellezze incredibili. Fanno tutto questo in una sinfonia di esplosione di colori, di cultura, di amore e serenità. Il loro rapporto con ogni singolo “cliente” è di amicizia profonda e di scambio reciproco. Il mio personale rapporto con loro è di simpatia, affetto ed incoraggiamento per questa bellissima e, direi, eroica, avventura.
Brave Girls!
©Luisa Casagrande
Inspired by my friends Caterina & Francesca &:
http://edition.cnn.com/2011/12/27/world/africa/fashion-nigeria-kinabuti/index.html