Dico la verità: ho approcciato questo film con moltissime aspettative. Un po’ perché ho stima per Zendaya, che seguo dai tempi di Disney Channel in “Nemici per la pelle“, quando la guardavo insieme ai miei figli, un po’ perché mi era piaciuta l’altra serie televisiva di Sam Levinson, “Euphoria“, certamente molto difficile da digerire, ma di un’onestà brutale sui diversi temi trattati, quali le vicende di un gruppo di liceali alle prime armi con droghe, sesso, identità, traumi, amore e amicizia.
Malcolm e Marie, è il nuovo film originale Netflix. Zendaya e John David Washington sono protagonisti di una pseudo-relazione tossica e tumultuosa sull’orlo del collasso. E’ una storia intima, tra le mura domestiche, concepito di nascosto durante la pandemia e girato, interamente, in una sinuosa ed affascinante pellicola 35mm in bianco e nero, dal direttore della fotografia Marcell Rév . Un lungometraggio di Hollywood del 2021, ideato, prodotto, finanziato e girato da Sam Levinson durante il primo lockdown, con i soli due attori che si dividono tra la lussuosa abitazione in cui si ambienta l’intera storia e l’ampio giardino che la circonda. Un set ristretto, intimo, ben arredato, ma impersonale, che riflette la vita di coppia dei due: apparentemente felice, come se il successo e il denaro potessero colmare l’infinita fame di attenzione di lui e far dimenticare la povertà e gli istinti suicidi di lei. Un’unica scenografia che scivola avanti e indietro, dentro e fuori dalla casa, sbirciando attraverso le finestre, con il dialogo come vero protagonista. Il coraggio di questo regista di cogliere la sfida al limite della follia, usando le parole in modo decisamente affascinante, in una complessità di un rapporto di coppia imperfetto, una storia d’amore tossica, tirata allo stremo, piena zeppa di continui litigi e dalle continue incomprensioni.
È interessante notare come sia Washington che Zendaya fossero responsabili del trucco e dei costumi, tutto gestito completamente da soli, poiché non c’erano truccatori o costumisti sul set. Sul set non erano ammesse più di 12 persone alla volta. Nel settembre 2020, Netflix ha vinto i diritti di distribuzione del film per $30 milioni, superando HBO, altri. È poi arrivato su Netflix il 5 febbraio 2021.
Siamo abituati a produzioni maestose, con scenografie stravaganti e cast variegato, per poi venire ridimensionati in questa piccola chicca che riverbera intorno all’ego, all’arte e al cinema. Malcolm & Marie ci introduce nelle vite di Malcolm (John David Washington), regista iperbolico egocentrico, e Marie (Zendaya), psicotica frustrata che ha ispirato il film del suo uomo. Devo dire che mi sono fatta coinvolgere nei sentimenti da questa pellicola, ma, nello stesso tempo, ho mantenuto una certa concentrazione sui meriti del film e non sulle emozioni dei temi esplorati, contrastando una certa acrimonia che inevitabilmente sorge dalla dicotomia dei due unici personaggi, coinvolti in discussioni e pause scandite da ritmi sconnessi, da una psicologia snervante e da silenzi piuttosto fastidiosi. Far parlare due personaggi, ininterrottamente, per quasi due ore, richiede una consapevolezza molto più ampia ed vi è il rischio di essere didascalici e risultare un po’ noiosi.
La sensazione monocromatica, gli angoli di ripresa e la messa in scena di questo film sono stati molto avvolgenti e hanno amplificato l’intensità e il dialogo. Ho particolarmente amato alcune scene dove la l’effetto monocromatico degli scatti è stato da vero mozzafiato. Nel complesso, Rév ha fatto un lavoro impressionante nella fotografia di Malcolm e Marie. La pellicola sembrava avere un’anima antica, una boccata d’aria fresca in una pozza di cinematografia banale e colorata.
Ci troviamo in un’angusta Malibu. E’ l’una di notte ed il film ha inizio quando la coppia torna a casa, tra entusiasmo e risentimento, dopo la prima cinematografica del film di Malcom, che viene lodato, dalla critica, come la sua migliore pellicola. Il regista si crogiola nell’euforia del suo successo, accompagnato da una colonna sonora da urlo che va da pezzi di James Brown (Down and Out in New York City),a Little Simz ft. Cleo Sol (Selfish) , per poi continuare, per tutto il film con pezzi di Jim Hall, Zoot Sims, & Jimmy Raney (Betaminus) , a The Fatback Band (Yum Yum – Gimme Some), Duke Ellington & John Coltrane (In A Sentimental Mood), Outkast ft. Cee Lo (Liberation), e la mia preferita, Dionne Warwick (Get Rid of Him) e many more. È una soundtrack che ci aiuta a respirare in alcuni momenti claustrofobici di questo film, smorzandone i toni drammatici e distendendo l’atmosfera con i classici del jazz o con il soul rassicurante. La sua ragazza Marie, non condivide, però, il suo entusiasmo. Successivamente scopriamo che il risentimento di Marie derivava da un piccolo errore madornale e cioè dal fatto che Malcolm si era dimenticato di ringraziarla nel suo discorso, nonostante la storia che ha portato in scena fosse proprio quella della fidanzata; una storia che parla della sua vita da tossicodipendente in via di recupero. Una mancanza notata da tutti, a partire dalla madre e da Taylor, l’attrice protagonista del film con la quale, forse, Malcolm ha tradito la compagna. Marie però sembra trovare un compromesso e pone fine alla lite, fumandosi una sigaretta e sparendo per qualche minuto. Ma la tregua è solo temporanea.
La lite continua, ma il destinatario della propria rabbia repressa cambia, a seconda della situazione: ci si sfoga contro l’altro, contro se stessi, contro terzi, contro un sistema che funziona solo a colpi di cliché e banale, evidente perbenismo di facciata. Un vortice di situazioni e contesti che inghiotte entrambi, facendoli affogare man mano nelle oscure acque del passato della loro relazione. Come se ne uscirà?
E qui si svela tutto il resto del film, pieno di monologhi aspri che fanno intravedere la punta dell’icerberg di una coppia frustrata, repressa da un sistema che li soffoca dall’interno. Tra colpi e contraccolpi i due si attaccano, fanno pace e si attaccano di nuovo. Il filo conduttore delle continue liti è la critica e il dibattito di Malcolm su come il suo lavoro viene accolto dalla critica “attraverso una lente politica”. Come uomo di colore, si risente dai giornalisti che lo paragonano a Barry Jenkins, anzichè William Wyler , più vicino a lui. “Non tutto quello che faccio è politico solo perché sono nero”, dice.
Le parole scelte con cura nella sceneggiatura pongono al centro dell’attenzione lo spettro psicologico delle identità emerse di Malcolm e Marie, in grado di riflettere tutte le luci di due persone che si conoscono da cinque anni e che si sono scheggiate in tutti i modi, tra di loro e tra uno Xanax e una bottiglia d’alcol di troppo. Un film che parla di talento guadagnato con fatica, di disintossicazione e terapie di gruppo, di un uomo che ha sofferto per amore subendo l’odio, il dolore e i disturbi della donna al suo fianco.
Nei lunghi monologhi, alcuni intensi e strazianti, altri inutilmente lunghi e sconcertanti, Malcolm attacca il fatto che i cliché, la politica dell’identità e dell’autenticità, il perbenismo di facciata, siano le metriche prevalenti della critica cinematografica, piuttosto che ciò che è sullo schermo. E’ in aperta polemica con i recensori – soprattutto quelli bianchi – che non riescono ad analizzare oggettivamente un film nel quale vi siano protagonisti afroamericani senza metterci di mezzo il razzismo. Una situazione che trascina lui stesso e Marie in un vortice che li inghiottisce poco a poco, annientandoli della retrologia della loro relazione. C’è, però, dell’equilibrio. Malcolm è più narcisista, egoisticamente concentrato nel suo monologo, e piuttosto spregevole, mentre Marie, seppur umiliata, continua a mantenere una lingua tagliente, a parare i contraccolpi di Malcom e pure a reagire con forza ed energia. Sono due persone che confondono l’attaccamento tossico per l’amore, ma almeno, in mezzo a tutto questo litigio, c’è un po’ un equilibrio di potere.
Dentro questi monologhi c’è quindi un bel pot pourri ; dalla psicologia di coppia, alle ombre di una relazione apparentemente perfetta all’esterno, ai dialoghi folli, a tratti inverosimili, di due personaggi esasperati, alla tossicodipendenza fino alle riflessioni della differenza tra uomo e donna. Diventa tutto un gioco al massacro strutturato, quasi scientificamente, come un incontro di boxe. Scandito da round separati da silenzi prolungati e momenti di erotica e dolce empasse, nei quali, ogni volta, la tensione si carica e si scarica, a causa di una piena di parole e discorsi. Per un attimo ho provato una sorta di sensazione di cannibalizzazione che mi ha portata a guardare e ad ascoltare i continui cambi di scena, cercando un modo per entrare in sintonia con il loro mondo dietro tante parole. All’inizio ho fatto fatica a trovare la chiave empatica per comprendere come questa coppia mi stesse cadendo a pezzi proprio davanti ai miei occhi, rapita dall’estetica e dalla bellezza dei protagonisti. Poi ha prevalso l’emotività interiore di ambedue che mi hanno aperto la strada alla ricerca di quel qualcosa di sublime che caratterizza ogni coppia quando arriva nel suo punto più estremo di tensione.
La regia, sicuramente, sfiora la perfezione perché la telecamera regala abilmente inquadrature strette e vicine per catturare l’emozione dei personaggi, ma anche inquadrature ampie che sviscera i sentimenti dei protagonisti e di come Malcolm & Marie si percepiscono a vicenda, come la percezione soggettiva influenza il modo in cui le persone agiscono e reagiscono anche nei momenti privati.
Zendaya/Marie mi è piaciuta all’inverosimile, perché, con la sua voce graffiante, è riuscita a rendere l’idea del suo personaggio, una ragazza sofferente, giovane, risoluta, ma matura (spesso più di lui) e vissuta, segnata dal tempo e dalle fragilità.
Anche John David Washington/Malcom, (che vengo a scoprire è figlio del mitico Denzel Washington ), nonostante sia scivolato spesso in un eccesso di overacting, ha reso bene il senso del suo personaggio, alternando una virilità docile ad un linguaggio violento e caustico in grado di ferire intimamente chiunque. Fa emergere tutta la ribellione focosa, aizzata anche dall’alcol che non smette di assumere nel corso della pellicola e che sa alternare momenti di ubriacatura a commovente e lucida ammissione delle mancanze di Marie e delle sue sofferenze.
Unica pecca su cui potrei storcere un po’ il naso: la sceneggiatura, che ho trovato affrettata, forse più adatta ad un palcoscenico che ad una pellicola. Ma, Ragazzi! E’ stato scritto velocemente e girato ancora più velocemente; si può anche tollerare una qualche imperfezione di qualche sorta. E poi, penso che i due avessero un messaggio ben più profondo: la tossicità nelle relazioni. Il modo in cui viene narrato nel film costringe gli spettatori a pensare a questo mostro, prevalente in molte relazioni ed evoca profonde emozioni su ciò che Malcolm e Marie avrebbero potuto fare meglio individualmente e come coppia.
In conclusione, Malcolm e Marie è stato un film intenso, nella sua alternanza di drammaticità, silenzi, rabbiosità, sguardi e rancorosità. Ha affrontato intensamente la tossicità nelle relazioni e ci mostra tutto ciò che una relazione NON dovrebbe essere. E’ la ricerca di una vittoria sull’altro, a prescindere, per poi abbassare le armi e dirsi anche perché ci si ama, ma in maniera razionale e logica, quasi perdendo il vero trasporto unico e genuino che l’amore dovrebbe implicare. Se è vero che l’identità umana cresce solo nella relazione dialogica con l’altro, qui non vi è nulla di tutto questo. Si passa dal riso, al pianto, all’ansia, alla tensione, al grottesco, alla passione sensuale priva di amore e a momenti di tenerezza in poco tempo, senza preavviso, mentre osserviamo l’interno di una casa grazie a piani sequenza continui e con movimenti accurati della telecamera, in grado di riprendere quasi ogni stanza come se fosse un quadro che fa da cornice a un mondo intimo e lontano dal resto dell’universo. Dalle urla al silenzio per diversi minuti, dal monologo al dialogo serrato e rabbioso. Il film porta sullo schermo quasi due ore di vita umana, vera, tangibile, ma anche di critica al sistema, alla retorica, all’inutile e fastidioso tentativo di catalogare l’arte e la produzione cinematografica da parte della critica, sciorinando una serie di citazioni di film e registi che hanno fatto la storia, non solo del cinema, ma anche della lotta contro il conformismo e il sottaciuto razzismo.
Non aspettatevi di trovare riferimenti sulle questioni razziali, se non all’inizio, con i classici stereotipi che separano bianchi e persone di colore nero, ma ponendo l’accento sull’ironia con cui il regista intende parlarne, come a sottolineare il perbenismo di facciata del politically correct di espressioni come “di colore” in sostituzione a “neri”.
Sicuramente è un film che intratterrà, scioccherà ed evocherà emozioni diverse, a seconda di quale sia la propria esperienza personale in materia di relazioni. La riflessione è completamente dedicata all’intimità di coppia e di come, spesso, le crisi siano legate non solo a mancanze tra i partner, ma anche alla struttura socioculturale sempre più costruita in cui siamo inseriti e che influenza le nostre vite. Le nostre fragilità e debolezze sono accentuate da una realtà che ci chiede continuamente attenzione, impedendoci di guardarci dentro e, di conseguenza, anche in chi ci accompagna. La scelta di ambientarlo di notte è, secondo me strategicamente introspettiva, perché è proprio nell’oscurità di essa che mettiamo a nudo la nostra parte più buia.
Una storia drammatica, in qualche modo biografica di ognuno di noi, un racconto costante che non punta a far crescere l’eroe di turno, ma anzi a smontarlo pezzo dopo pezzo, portandolo al più alto punto della propria bassezza. Un film tagliente, tra piccoli colpi di scena e ripetuti colpi al cuore, in grado di mostrare un amore forse malato, instabile, pazzo, logorante. Ed è forse inutile nascondere che spesso sono così le pure e forti emozioni che ci attanagliano.
Non vi resta che gustarvelo e poi darmi un bel o brutto feedback nella sezione commenti.