La faccenda inizia con due episodi accadutemi in questi ultimi mesi e che mi hanno portato a riflettere seriamente sul perché siamo propensi a sposare la prima ondata di “trasgressione” che capita nel nostro vivere socialmente fluidi. Sì! Avete letto bene: “trasgressione”! Ma andiamo con ordine.
Il mese scorso, Dominic Rennie Raab, Primo Segretario di Stato britannico, Segretario di Stato per gli affari esteri e del Commonwealth, nonché Primo Ministro supplente, nell’Aprile 2020, di Boris Johnson (preso con le bombe dal COVID), se ne uscì con una sparata degna delle raccolte moderne di Topolino.
Disse, durante una sua recente intervista, che “non si inginocchierà” a sostegno del movimento Black Lives Matter, e ha anche sottolineato che tale protesta dovrebbe esser vista come “una questione di scelta personale”. Alla domanda dell’intervistatrice, che ha chiesto a Raab se avrebbe preso quindi parte alla manifestazione simbolica a sostegno del movimento anti-razzista, il ministro ha dichiarato: “Io mi inginocchio davanti a due persone: la Regina e la mia signora – quando le ho chiesto di sposarmi. Pur comprendendo questo senso di frustrazione e irrequietezza che guida il movimento Black Lives Matter, devo dire che, su questa cosa del genuflettersi, non lo so, forse ha una storia più ampia, ma sembra essere presa da “Il Trono di Spade“; mi sembra un simbolo di sottomissione e subordinazione, piuttosto che uno di liberazione ed emancipazione. Ma capisco anche che le persone la pensino diversamente, quindi diventa una questione di scelta personale”. Tutto questo in diretta nazionale.
La frase “BEND THE KNEE – piega il ginocchio” è stata ampiamente usata in Il Trono di Spade – la regina dei draghi, Daenerys Targaryen ha chiesto ai suoi seguaci di dichiararle lealtà inginocchiandosi davanti a lei.
Passa qualche settimana da questo episodio, ed incappo in una bella e vigorosa discussione, tra accademici, sul senso di questo gesto, riferendoci al gesto dei sei piloti di F1 (tra cui Leclerc, Verstappen, Sainz e Raikkonen), rimasti in piedi durante la cerimonia finale del gran premio d’Austria, pur indossando tutti una maglietta con scritto “End racism“, mentre gli altri 16, cappeggiati da Hamilton, si inginocchiavano. La scintilla che ha fatto accendere la miccia sono state le parole (Twitt) di Leclerc, poco prima della gara, il quale aveva scritto: “Tutti i 20 piloti sono uniti con le loro squadre contro il razzismo e i pregiudizi, abbracciando allo stesso tempo i principi di diversità, uguaglianza e inclusione, sostenendo la Formula 1 e l’impegno della FIA. Credo che ciò che conta siano i fatti e i comportamenti nella nostra vita quotidiana piuttosto che i gesti formali che potrebbero essere considerati controversi in alcuni paesi. Non mi metterò in ginocchio, ma questo non significa affatto che io sia meno impegnato di altri nella lotta contro il razzismo”. Apriti cielo!
Iniziava così una diatriba verbale, vestita da attacco diretto al gesto in sé, visto come una sorta di sirena mediatica che richiama le masse ad un conformismo che nulla ha che fare con l’antirazzismo. Si accusava le persone, in generale, di essere incapaci di pensiero autonomo, di indipendenza e di coraggio, caratteristiche, invece, che avrebbero dovuto avere tutti coloro che vogliono combattere il razzismo e in generale i fenomeni antisociali. Un docente universitario diceva che “inginocchiarsi, chiedendo scusa per atti commessi da altri, che con chi si inginocchia ha in comune solo il colore della pelle, è un gesto razzista“, giustificando questo concetto con il fatto che un gesto così non fa che alimentare il razzismo stesso, gettando la responsabilità, non all’individuo, ma ad un intera razza. Un’altra partecipante alla discussione tuona con un “il razzismo si batte in altre modi, non con un ginocchio per terra e la testa altrove“. Il filo conduttore, in questa discussione (ed errato dal mio punto di vista) è, comunque considerare l’atto dell’inginocchiarsi come, esclusivamente, un atto di richiesta di perdono, di preghiera, o, peggio, di supplica, quando è lampante che abbia perso, in questo contesto, il significato di sottomissione ed abbia, invece, assunto quello di simbolo di rivolta (un segno di disprezzo, di oppressione, usato dal tuo nemico, può trasformarsi in un orgoglioso simbolo di riscossa – vedesi la croce, per esempio!).
Ok! Respiriamo un po’ e cerchiamo di spiegare un po’ di cosette.
Spiegare il gesto dell’inginocchiarsi è piuttosto complesso ed assume significati e sfumature diverse in base al contesto in cui viene perpetuato. Può significare la resa, supplica, crudeltà o omicidio. Oppure, umiltà e rispetto. Per i cristiani ha un senso molto profondo, mentre per altri è anche la posizione di concedere i propri limiti, ammettendo che non si è onniscienti, né onnipotenti, non in cima a una determinata situazione e non sempre al comando. Inginocchiarsi è anche la posizione dell’umiltà e del timore reverenziale. Insomma, a ben guardare, la ricerca sulle emozioni e sulla comunicazione non verbale suggerisce che non c’è nulla di minaccioso nell’inginocchiarsi. Invece, inginocchiarsi è quasi sempre considerato un segno di deferenza e di rispetto. Una volta ci si inginocchiava davanti a re, regine e altari; ci si inginocchia per chiedere a qualcuno di sposarsi, o almeno gli uomini lo facevano ai vecchi tempi. Ci inginocchiamo per scendere al livello di un bambino o per implorare.
Probabilmente l’inginocchiarsi deriva da un principio fondamentale del comportamento non verbale dei mammiferi: rendere il corpo più piccolo e alzare lo sguardo per mostrare rispetto, stima e deferenza. Questo si vede, ad esempio, nei cani e negli scimpanzé, che riducono la loro altezza per mostrare sottomissione. Inginocchiarsi può anche essere una posizione di lutto e tristezza. Rende più vulnerabile chi si inginocchia. In alcune situazioni, l’inginocchiarsi può essere visto come una richiesta di protezione. Ed è, probabilmente da qui che parte tutto il significato culturale che sta dietro il simbolismo dell’odierno inginocchiarsi e che ha rappresentato, prima, le proteste del giocatore mixed, quater-back di football americano, Colin Kaepernick, poi, oggi, rappresenta il movimento BLM (Black Lives Matter).
C’è qualcosa di potente nel vedere le persone al potere mettersi in ginocchio. Lo è stato quando, nel Febbraio del 1965, il leader dei diritti civili Martin Luther King Jr. si inginocchiò fuori dal Tribunale della Contea di Dallas, in Alabama, insieme a diversi altri manifestanti dei diritti civili. Quel giorno arrestarono 250 persone perché rei di aver manifestato senza alcun permesso (come prevede la legge) e, King, prima di recarsi in prigione a Selma, si mise in ginocchio, in preghiera, sul marciapiede.
Lo è, quando guardiamo quel famoso disegno del 1780, dove un uomo nero schiavizzato diventa l’emblema del movimento abolizionista britannico nel 1800. Quella frase-domanda che si legge sulla pergamena ai piedi dello schiavo, incatenato e in ginocchio, spiega quanto questo gesto abbia in sé un significato che va al di là di qualsiasi comprensione dei bianchi: “Non sono, forse, un uomo e un fratello?”.
L’inginocchiarsi in posizione di protesta, assunto, poi, da Colin Kaepernick, nell’Agosto del 2016, è stato tanto polarizzante quanto potente. Lo fece, durante l’inno nazionale degli Stati Uniti, prima di una partita, per protestare contro le ingiustizie, le oppressioni subite dalla minoranza, la brutalità della polizia e il razzismo. Quando gli chiesero il perché di quel gesto, rispose: “Non mi alzerò per mostrare orgoglio in un paese che opprime i neri e le persone di colore. Per me, questo è qualcosa di più grande del football, e sarebbe egoistico da parte mia guardare dall’altra parte. Ci sono corpi in strada ed ai responsabili viene pagata il congedo e se la cavano con niente. Se mi toglieranno il football, avrò la conferma che mi sono battuto per ciò che è giusto.”
Fu tremendamente criticato e fischiato, anche dai neri stessi; questi ultimi lo hanno accusato di non essere titolato a protestare riguardo alle discriminazioni e alle violenze verso gli afroamericani, perché è una persona ricca e di successo, innanzitutto, ma anche perché, in sostanza, è sì, nero, ma non abbastanza nero. Rodney Harrison, un commentatore sportivo ed ex giocatore di football, ha detto in un’intervista radiofonica: “Vi dico questo, io sono nero. E Colin Kaepernick, lui non lo è. Non può capire cosa devo affrontare io e cosa devono affrontare gli altri neri, o le persone che non hanno la pelle bianca, tutti i singoli giorni”. Harrison si è poi, per carità, scusato, ma ha dimostrato quanto fragile il sistema sia anche tra le varie sfumature di POCs. Kaepernick è mixed; ha una madre biologica bianca e un padre biologico nero, ma è stato cresciuto da genitori adottivi bianchi: per questo qualcuno ha considerato che la sua storia personale non lo renda adatto a protestare per i diritti dei neri. Ma lui, imperterrito, sicuro della genuinità della sua battaglia, ed ignaro di ciò che poi quel gesto dell’inginocchiarsi avrebbe prodotto, è andato avanti per la sua strada, seguendo la filosofia del “Credi in qualcosa. Anche se ciò significa sacrificare tutto “.
Fatto sta che molti suoi compagni di squadra e, da lì in avanti, anche altri giocatori di altri sports, impiegarono quel gesto come simbolo di protesta, consolidando il significato di base della posizione come obiezione pacifica all’oppressione. “Abbiamo scelto di inginocchiarci perché è un gesto rispettoso“, ha detto il compagno di squadra di Kaepernick, Eric Reid. “Ricordo di aver pensato che la nostra postura fosse come una bandiera sventolata a mezz’asta per segnare una tragedia“.
Apro due piccole parentesi, ponendo particolare attenzione
a) sull’accompagnamento del pugno nell’atto dell’inginocchiarsi
b) su come è nato in Kaepernick l’idea di inginocchiarsi anziché rimanere seduto in panchina.
- a) Umanamente tendiamo a rafforzare il nostro senso di potere con delle gestualità a cui non diamo molto adito. Avete mai osservato chi vince una gara e spinge in lato le braccia, in segno di trionfo? Non rivela, forse, l’impulso radicato a segnalare il potere con quel gesto di espansione del corpo? E che dire, allora, del pugno, che tanto spesso vediamo nelle manifestazioni di protesta? In senso darwiniano, il pugno è l’antitesi della mano aperta, associativa, ma quando uniamo un braccio alzato a un pugno diventa qualcosa di più comunicativo: un grido di battaglia. È un gesto che cerca di riunire un gruppo, mentre ne avverte un altro. Niente di tutto ciò dovrebbe essere troppo sorprendente. Ma c’è un importante punto di somiglianza nel pugno alzato del “Black Power” – che rende i corpi più grandi – e il ginocchio piegato, che ci rende più piccoli. Sia Carlos che Smith chinarono la testa a Città del Messico, in un segno di rispetto e umiltà che accompagna il loro segnale sociale di forza e trionfo. Quel mix di messaggi ha reso “Black power” una delle proteste non verbali più famose, complesse ed efficaci della nostra vita.
- b) Io mi chiedo una cosa, da non esperta in materia di Football Americano, e senza andare a scomodare tomi e tomi di storia per spiegare perché si usa questo gesto per protestare: e se, il quarterback Kaepernik avesse usato questo gesto, tipica nel football americano, chiamato, appunto, quarterback kneel, (o taking a knee, genuflect offense, kneel-down offense, or victory formation), in cui il quarterback si inginocchia immediatamente a terra, ponendo fine al gioco di contatto, dopo aver ricevuto lo “Snap”? Solitamente viene usato per guadagnare tempo e per conservare un vantaggio, inescando una dinamica di gioco piuttosto “sospeso” ed “equilibrato”. Traslare nella sua forma di protesta questo significato è davvero troppo azzardato? Qualcuno glielo ha mai fatto questa domanda?? Non credo, visto che la maggior parte degli americani è convinto che il gesto sia stato suggerito da tal Nate Boyer, un ex beretto verde ed ex giocatore di football, divenuto poi consulente della squadra di Colin. (Leggi la storiella qui)
Il che ci riporta al discorso dell’inginocchiarsi. Inginocchiarsi è un segno di riverenza, sottomissione, deferenza, e talvolta lutto e vulnerabilità. Ma con un unico, formidabile atto, Kaepernick lo investì con un doppio significato. Non voltò le spalle mentre veniva suonato l’inno, il che sarebbe stato un vero segno di mancanza di rispetto. Né si affidò al pugno, potere nero ormai convenzionale. Piuttosto, ha trasformato un rituale collettivo – la riproduzione dell’inno nazionale – in qualcosa di cupo, un promemoria di quanto si deve ancora fare per realizzare l’alto ideale di uguaglianza e protezione, che, ai sensi della legge, la bandiera rappresenta. Gli atleti mostrano riverenza per l’inno e la bandiera, ma contemporaneamente si discostano dalle norme culturali, nel preciso momento in cui le loro ginocchia toccano l’erba.
Trasformando questo rituale, i giocatori hanno svegliato chi dormiva. L’amigdala si attiva non appena i cervelli individuano deviazioni dalla routine, dalle norme sociali e dalle tendenze in gruppo. Automaticamente si vuole sapere cosa sta succedendo e perché. Si cerca di capire se la deviazione costituisce una minaccia per se stessi o per il gruppo a cui si appartiene. Questo potrebbe iniziare a spiegare perché così tanti americani hanno reagito con tale paura e rabbia ai pochi atleti in ginocchio sul campo nel mezzo di un rituale nazionale. Ma c’è molto di più. L’appartenenza al gruppo influisce sull’interpretazione del linguaggio del corpo perché i gruppi sviluppano norme e aspettative in merito al comportamento, al linguaggio e alla vita. La violazione di queste norme viene utilizzata intenzionalmente per segnalare disaccordo con le norme, nonché per segnalare che non si è conformi. Suscita forti emozioni e contraccolpi proprio per il suo significato simbolico, una minaccia per lo status quo.
Così, se trasliamo il ragionamento sulla società americana, è importante che la maggior parte degli atleti siano neri e gran parte del pubblico sia bianco; che gli antenati di un gruppo siano stati portati qui come schiavi e che gli antenati dell’altro fossero i loro proprietari. Ecco spiegati i vari epiteti “n*****”, “degenerati”, “sluts” …. pronunciati da una fazione dominante, all’altra. Quando si mescolano le differenze di potere con le dinamiche intergruppo, entrano in gioco più fattori. Alcuni esperimenti hanno scoperto come le persone con molto potere (il presidente o i membri della maggioranza numerica, hanno maggiori probabilità di interpretare erroneamente il comportamento non verbale. L’esperienza di avere potere rende meno precisi nella lettura della sofferenza sui volti degli estranei e delle emozioni nelle foto statiche delle espressioni facciali. Le persone potenti sono meno capaci di entrare nella prospettiva degli altri; sono più veloci a confondere la cordialità con la civiltà.
Questo è il deficit di empatia delle persone al potere, che si riscontra in molti tipi di studi. Le persone di potere, non attenti agli altri, hanno maggiori probabilità di stereotipare gli altri e più probabilità di perdere sfumature individuali nel comportamento. Ciò significa che alcuni tifosi di football, a maggioranza bianca, potrebbero essere vittime dello stereotipo degli afroamericani – giocatori di football professionisti particolarmente grandi, muscolosi e pro – violenti e aggressivi. In effetti, come abbiamo discusso, l’inginocchiarsi è in realtà l’opposto di un segnale aggressivo.
Uno studio ha esaminato l’espressione di 20 emozioni in cinque culture. Si è scoperto che mentre la maggior parte delle espressioni emotive esterne sono condivise o parzialmente condivise, un quarto no. È in quello spazio non condiviso che si manifesta il conflitto interculturale, ma quel conflitto a volte può portare a una impollinazione incrociata, poiché le persone arrivano a capirsi e sincronizzare i loro gesti.
Pertanto, non dovremmo essere sorpresi dal fatto che molti bianchi fraintendano il significato di “inginocchiarsi” e non riescano a vedere il rispetto, la preoccupazione e persino la vulnerabilità insiti nell’inginocchiarsi. Certo, è anche vero che alcuni bianchi potrebbero voler vedere i neri terrorizzati dalla polizia e politicamente privati del diritto di voto. Qualsiasi sforzo da parte degli afroamericani, non importa quanto deferente, di sollevare questi problemi inciterà la rabbia di coloro che traggono beneficio, emotivamente o materialmente, dalla gerarchia razziale americana.
Ma da un punto di vista psicologico, questa spiegazione politica non esplica ancora la specifica incapacità della maggior parte dei tifosi del football bianco di interpretare il gesto secondo le norme umane universali. Ma perché portare ulteriormente la percezione sbagliata, a vedere effettivamente questa umile postura come un atto di aggressione contro l’America?
Sicuramente “Take a Knee” è una protesta contro il trattamento ingiusto dei neri americani – ma ora è diventato un simbolo globalizzato della lotta al razzismo. Pur non essendo direttamente collegato al simbolo della protesta, il signor Floyd è stato assassinato dopo che un ufficiale bianco gli si era inginocchiato sul collo per 8 minuti e 46 secondi, mentre urlava “Non riesco a respirare”. I manifestanti di tutto il mondo hanno quindi adottato lo stesso gesto, ma derivante da matrice diversa, cioè dall’arma con cui è stato ucciso (ingiustamente) un uomo nero. Un gesto, insieme al pugno chiuso, simbolo del movimento attivista “Black Lives Matter“, impegnato nella lotta contro il razzismo perpetuato a livello socio-politico, verso le persone nere. Nasce sotto lo slogan di “siamo impegnati a immaginare e creare un mondo libero dall’anti-oscurità, dove ogni persona di colore ha il potere sociale, economico e politico di prosperare”.
A dimostrazione di quanto ho detto prima, anche su questo fronte vi è una percezione di questo movimento e della sua modalità di lotta (il genuflettersi, appunto), che considerevolmente varia, a seconda dell’etnia di appartenenza. Infatti, in contrapposizione ad essa si sono posti i vari “White Lives Matter, too” o “All Lives Matter”, che criticano fortemente la volontà di autodeterminarsi dei neri, ignorando, platealmente la loro esistenza e volendo porre una contrapposizione netta alla propria supremazia bianca. Queste reazioni mancano, però, completamente il punto. BLM non ha a che fare con la denigrazione del valore di altri gruppi etnici; qui, si tratta di evidenziare un problema specifico. Black Lives Matter è contro il razzismo e le ingiustizie sistemiche contro la comunità nera, e lavora per l’uguaglianza di tutti. Il messaggio dello slogan non è che le vite nere contino di più. Non è che la vita dei caucasici non abbia importanza. È che le vite nere contano altrettanto. Gridare “White Lives Matter!” o “All Lives Matter!” significa negare ciò per cui BLM sta lavorando e per cui lotta, non riconoscendo la difficile situazione di una comunità che ha subito una violenta sottomissione in passato e continua a sentire i residui effetti negativi della storia, con il razzismo palese e sottile ancora evidente oggi. Il fatto che “White Lives Matter” sia stato usato come slogan per gruppi di suprematisti bianchi è altamente problematico e crea un’assurda falsa equivalenza.
Spiegazione for dummies di cosa significa “Black lives matter” e “All lives matter”.
Quindi, quando gli sportivi si inginocchiano e indossano t-shirts con lo slogan pro-black, è un atto di solidarietà, non di supremazia. È un’espressione del desiderio di liberare il mondo dal razzismo, in tutte le sue forme.
Ideologia molto condivisibile, ma, a mio modesto parere, difficile da attuare oggi, fino a quando i leader della nostra società favoriranno l’antagonismo razziale e le persone non riescono a riconoscere l’emozione e la credenza dietro nemmeno i gesti più delicati. Il cambiamento accadrà, ma non succederà da solo. A volte, pare necessario, inginocchiarsi per conquistare, se non altro, un’attenzione che altrimenti si farebbe fatica ad ottenere.
@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy , MBA Metissage & Métissage SangueMisto.