“Esistono tre tipi di alchimisti,” mi rispose il mio Maestro. “Quelli che sono vaghi, perché non sanno di che cosa stanno parlando, quelli che sono vaghi perché sanno di che cosa stanno parlando, ma sono anche consapevoli che il linguaggio dell’alchimia è un tipo di linguaggio rivolto al cuore, e non alla ragione.”
“E qual è il terzo tipo?” gli domandai.
“Quelli che non hanno mai sentito parlare di Alchimia, ma che sono riusciti, nel corso della loro vita, a scoprire la Pietra Filosofale.”
“È bene, comunque, che tu impari come tutto nella vita abbia un prezzo.”
E’ inutile citare chi scrisse queste righe in un libro planetario, simbolo di tutti i quesiti che ogni essere umano si fa, nell’arco della propria vita.
La vera questione che oggi vorrei porvi è se conoscete chi è un Alchimista. Sapreste davvero definirlo, senza l’aiuto del Treccani? Molti di voi, sicuramente no. E se lo fanno, lo fanno con quella nozione accademica che richiama concetti sconosciuti ai più. Sull’Alchimia sono state dette molte cose, ma nessuno dà una definizione precisa ed assoluta del termine; non la si può dare, perché l’Alchimia va capita con lentezza. E’ l’arte di trasformare Sé Stessi, ascoltare la propria anima come solo un bambino sa fare, combattere ogni giorno come un guerriero, combattere ogni giorno per realizzare la propria Leggenda Personale. “Solve et Coagula“, l’eterno motto di un Alchimista, colui che fa le cose, ripetendole anche migliaia di volte, pur di trovare la sua Pietra Filosofale; una metafora per spiegare la trasmutazione delle situazioni apparentemente negative in situazioni positive.
Oggi ho avuto il piacere di fare una bellissima chiacchierata con un Alchimista un po’ particolare, non solo per la sua professione, che molto si avvicina a quella di chi usa gli alambicchi ed i segreti della chimica degli oili essenziali, ma anche, e soprattutto, per l’incredibile sostanza della sua vita, delle sue esperienze e per l’energia con cui affronta (ed ha affrontato) i momenti più tormentati che inevitabilmente capitano nella vita di ognuno di noi.
Tommaso Iser Menini è un Alchimista del terzo tipo, uno di quelli che, nel corso della propria vita, è riuscito a trovare la SUA Pietra Filosofale. Co-Founder e Managing Director della AGAR (African Agency for Arid Resources) Limited, azienda di base in Kenya che si occupa di risorse da zone aride e semi aride.
Dopo aver cominciato come grossisti di risorse grezze (gomma arabica e resine), la compagnia si e’ specializzata nella vendita di oli essenziali all’ingrosso e seguentemente al dettaglio con altri prodotti come burro di carite’, prodotti a base di aloe e molto presto oli per corpo.
Tommaso e’ anche un consulente specializzato in filiere commerciali in zone aride, attualmente sotto contratto con L’ONU in Kenya, e un panelista Internazionale sui temi di climate adaptation and land restoration.
L’ho conosciuto, proprio per motivi di Business, in quell’incredibile hub di imprenditori interessati a mettersi in gioco ed a investire in Africa, chiamato VADOINAFRICA NETWORK. Un hub creato dall’instancabile Martino Ghielmi, con grande perseveranza e passione, dove imprenditori e professionisti italofoni creano valore con il continente africano.
Tommaso è anche Clubber della nostra Community Métissage Sangue Misto, avendo un figlio Mixed e vivendo, costantemente, in un enviroment multiculturale. Ma andiamo con ordine!
Ciao Tommaso! Benvenuto nel salottino di Métissage. Allora … come sta andando in Kenya nell’era COVID?
In questo momento anche noi siamo in Red Zone e interessa la zona di Nairobi e 3/4 Regioni limitrofe. C’è un’impennata di contagi, e probabilmente si avranno altri due mesi di lockdown, ma la Nazione sta gestendo molto bene l’emergenza. L’economia è stata abbattuta solo in determinati settori, come per esempio il turismo, ma molti altri sono riusciti a reggere bene. Tutto sommato, il Kenya, ha saputo gestire bene questa emergenza.
Devo dire la verità. Mi hai colpita particolarmente, cosa non facile per la sottoscritta, perché dai l’impressione di essere una persona trasparente, in pace con i propri drammi e la propria vita, nonostante tu non abbia avuto un percorso facilissimo. Mi hai dato il sospetto di avere molte cose da raccontare, in primis come uomo, poi, per la visione d’insieme che hai sul senso della multiculturalità. Ma andiamo con ordine …. Dove ha origine la tua vita e che bambino sei stato?
Sono nato a Milano da mamma siciliana e papà milanese. Mamma era una cantante – partecipò a Sanremo nel 1971 con un quartetto, “I protagonisti“. Papà, invece è un Assicuratore eclettico perché svolgeva il suo lavoro nei locali, incontrando i clienti fuori dal rigido ambiente di lavoro. A scuola ero un bambino irrequieto ed avevo grossi problemi di disciplina, ma questo era dovuto alla mie difficoltà date dalla balbuzie. Da quando ho iniziato a parlare, ho balbettato ed i bambini sono spesso e volentieri piuttosto cattivi e crudeli, o per lo meno si comportano così. Già all’età di 5/6 anni, mi prendevano in giro, apostrofandomi come quella famosa pubblicità degli anni ottanta, con lo slogan “Tommaso, la scopa ficcanaso“. Per difendermi, non riuscendo a parlare, cominciavo, a lanciare tutto ciò che avevo sotto mano, biciclette incluse. Il mio primo pugno lo mollai a 9 anni, rompendo il setto nasale ad un mio compagno e rimediando una bella sospensione da scuola, già in 3 elementare. Mia madre non sapeva più cosa fare. La mia indole di “protettore” , prima nei miei confronti, e poi nei confronti di chi amavo o dei più deboli, mi ha sempre condotto verso tutta una serie di problematiche non indifferenti. Una volta vieni sospeso, poi ti fai un nome, gli insegnanti ti vedono in modo diverso e quindi finivi nell’occhio del ciclone.
La mia salvezza è stata quando, in seconda media, ho iniziato a fare recitazione. La mia insegnante di recitazione era molto introdotta nella scuola di recitazione più in voga di Milano, la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, un’accademia d’arte drammatica italiana, gestita dalla “Fondazione Milano”, un ente privato che si occupa di formazione teatrale, televisiva, cinematografica e musicale, e quindi ho avuto un’attenzione particolare nel cercare di superare la mia balbuzie. Mi insegnavano il teatro classico, da Molière a Shakespeare e nell’esprimere tutta la mia creatività, sul palco, non balbettavo più.
Giusto per informare i nostri lettori, la balbuzie (da non confondere con il cluttering o farfugliamento) è un disturbo di sviluppo della fluenza verbale, caratterizzata da ripetizioni, prolungamento di fonemi o di sillabe e da pause visibili e udibili. La balbuzie evolutiva, ha esordio prevalente nella prima infanzia, come si è manifestata in te, possono essere normali, indicativamente, fino all’età di 30-36 mesi, perché, comunque, un bambino necessita del tempo necessario per imparare a parlare, pronunciare le parole in maniera corretta, strutturare e arricchire il proprio vocabolario, conoscere le regole della grammatica, della sintassi e dell’intonazione, usare le parole giuste a seconda delle situazioni e delle persone e fare tutto questo in maniera “fluente”, scorrevole. Le incertezze, le esitazioni, gli improvvisi arresti nel modo di pronunciare le parole, possono però prolungarsi nel tempo, diventando più frequenti e più evidenti, portando, spesso, la persona a sviluppare un mondo sotterraneo di emozioni, sentimenti e comportamenti negativi, conseguenza del modo assolutamente unico e personale con cui un balbuziente affronta le sue difficoltà. É raro che ne venga a capo positivamente utilizzando esclusivamente le proprie risorse, cognitive ed emotive. I tuoi genitori, Tommaso, ti avevano mai portato da un medico per capire quale era l’origine di questa balbuzie? Come hanno gestito i tuoi genitori questa situazione?
Un po’ di lavoro l’ho fatto con uno psicologo, ma non è che mi sono fatto vedere se c’era un problema di hardware nel mio cervello. Conobbi un terapeuta molto in gamba, il nome ancora me lo ricordo, Dottor Settimo, ma non ho mai fatto un percorso di riabilitazione particolare. Ho semplicemente scoperto di non balbettare più quando mi trovavo su un palco. I miei genitori cercavano di sostenermi come meglio potevano. A scuola non ero particolarmente studioso, un po’ per i miei problemi di disciplina, un po’ perché il mio problema principale era difendere me stesso dal bullismo e proteggere tutti gli altri toccati dallo stesso problema. Soprattutto alle medie e al liceo ero particolarmente sensibile agli atteggiamenti di bullismo e la mia reazione era quella di appendere i bulli letteralmente al muro. Non sono un violento di natura, tant’è che non ho mai iniziato né innescato una lite di mia volontà. Ho sempre protetto chi era più debole e questo mi ha portato, inevitabilmente altri problemi.
Quindi non hai vissuto questo tuo problema in modo vittimistico, ma la tua parte reattiva è sempre stato forte. Tu non ti sei mai pianto addosso, tanto per capirci.
No! Però mi è capitato di trovarmi in di fronte a ragazzi molto più grandi di me e non potevo difendermi. Poi, una volta stavamo fuori molto, mentre i ragazzi di oggi sembrano tutti più protetti. C’era la vita da piazza, ci si menava, si andava dall’altra parte del campo per incontrare i gruppi “rivali”. Per esempio, mi successe un episodio in particolare, in cui non potevo difendermi: a 17 anni andavo in giro a spruzzare con le bombolette, a fare graffittismo. Facevo parte di una crew e andavamo a mettere le nostre tags in giro. Un giorno, ero in compagnia di due ragazzi della zona di Viale Padova, una zona molto etnica di Milano; erano italo-eritrei. Finiamo in una zona bruttissima, ed essendoci ancora un locale aperto, decidiamo di entrare, Veniamo fermati subito all’esterno da un buttafuori, in quale ci dice che non possiamo entrare. Pensavamo fosse perché credesse fossimo minorenni, quindi insistemmo che eravamo maggiorenni e che ci lasciasse entrare. Niente da fare! Ci spiega che, per ordine della direzione, negri e arabi non possono entrare. Se ci ripenso mi vergogno ancora della mia reazione. Infatti mi affrettai a dire che non ero arabo! Io e i miei amici ci guardammo con un po’ di stupore, dopo la mia infelice uscita, e subito dopo gridammo in coro che eravamo tutti italiani. Iniziarono a scaldarsi gli animi, ma non mi ci è voluto molto per capire perché non ci volevano far entrare. Di lì a poco, infatti, uscirono 4 skinheads. Ci picchiarono a sangue ed a me, sbattuto per terra, mi chiamavano “amico dei negri“, “vedi cosa significa andare in giro con i negri?”… e giù di botte!
Poi? Come hai proseguito il tuo percorso di vita?
Dopo le superiori sono stato spedito a Sydney, in Australia, perché mia madre era decisa a farmi crescere velocemente. Decisi di stare per poco tempo, il periodo necessario per finire gli studi, e rientrare poi a Milano per lavorare insieme a mio padre, l’uomo che avrei voluto diventare. Mio padre è un uomo molto particolare, e faceva il suo lavoro di assicuratore in modo molto creativo. Ammiravo il suo modo di fare, di comunicare, di approcciarsi e comportarsi con le persone, di avere successo con le donne. Volevo diventare come lui. Invece, una volta a Sydney, sono stato preso da un’apertura mentale straordinaria, dato dall’ambiente molto stimolante, tanto che, una volta tornato a Milano, dopo la laurea, non riuscivo più ad adattarmi al mio vecchio ambiente. Non riuscivo più ad adattarmi al grigiore dell’inverno, ed il lavoro in assicurazione non faceva per me, molto difficile per me abituarmi a quel tipo di gavetta ed ai ritmi abitudinari. Papà stesso, come sempre di grande supporto, mi ha spinto a fare quello che mi rendeva felice, anche se si traduceva in lasciare Milano e il progetto di lavorare insieme e, così, puntai tutto sull’Africa Orientale.
Qui, in Kenya, sono spesso pervaso da un climax emotivo pazzesco. Ogni 2/3 settimane ho una sorta di feeling che mi fa sentire di essere nel posto giusto al momento giusto e di fare ciò che voglio fare esattamente nel momento in cui devo farlo. Ci sono persone a cui questa cosa non viene mai all’interno del proprio percorso esistenziale. Io ce l’ho ad ogni luna piena. Ed ecco che sono sempre stimolato a fare le cose che mi sento di fare, come e quando mi sento di farle.
Ma questa cosa, lo hai sempre avuta o è partita ad un certo punto della tua vita?
Si è sviluppato maggiormente da quando sono qui in Kenya. In Australia stavo da Dio, ho fatto una vita straordinaria ed avevo dei genitori che non mi hanno mai fatto mancare nulla. Eppure, nonostante mi mantenessero finché studiavo, ed essendo una persona a cui piace vivere particolarmente bene, lavoravo tantissimo perché mi piaceva lavorare e mi piaceva permettermi quegli extra per poter stare bene e far star bene chi era accanto a me e i miei amici.
Vuoi dirmi che lavoravi per realizzare i tuoi desideri (giustamente) e per far stare bene le persone che avevi vicino? Quindi una grande dose di generosità!
Questo l’ho preso da ambedue i miei genitori, persone molto generose. Hanno sempre speso tanto e per vivere bene. Mamma, quando mi sono laureato, mi regalò un round-world ticket, per vedere il mondo. Un’opportunità pazzesca a 24 anni. Abbiamo sempre vissuto bene come una famiglia di media borghesia. Non eravamo ricchi, ma abbiamo sempre speso più di quello che potevamo permetterci, per vivere bene. Avevamo il concetto di “lifestyle” come esperienza di vita e non come “status quo“. Sono cresciuto nella generosità totale. Una volta che ho dovuto contare solo su di me, dovevo lavorare per permettermi quel qualcosa in più per essere generoso con me stesso e con gli altri.
Che tipo di educazione hai ricevuto dai tuoi genitori?
Sicuramente un’educazione molto liberale che mi ha permesso di diventare la persona che sono. A casa mia non ho mai sentito una parola fuori posto contro gli immigrati, sulla discriminazione, sul razzismo o sulle persone di colore (diverso dal bianco). La mia non è una famiglia religiosa; mamma è una donna spirituale, papà un cinico imprenditore milanese. Siamo tutti religiosi sulla carta, anche se ho fatto esperienza religiosa con i Boy Scout dell’Agesci. I miei si sono separati quando ero ancora piccolo e verso i 6/8 anni ne ho sofferto moltissimo. Ma grazie al fatto che hanno mantenuto sempre dei rapporti civilissimi e sono sempre stati attenti alla mia educazione, sono riuscito a superare molto bene anche quella fase.
C’è qualcosa di veramente brutto accaduto nella tua infanzia, che ti ha ferito molto o sconvolto questo tuo modo di essere reattivo in tutte le situazioni problematiche?
Bella domanda! Tralasciando la balbuzie, che non è certo stato un periodo facile da gestire, dai 12 anni in poi un piccolo trauma è stata la morte di mia nonna materna. Una donna straordinaria. Aveva una galleria d’arte in Brera, a Milano, ed aveva una personalità molto eclettica. Conosceva un sacco di persone importanti ed io ho vissuto la mia infanzia nella sua Galleria d’arte, tra arte e artisti. Ho respirato, anche con lei, un’aria molto liberale. Non mi permetteva mai di chiamarla nonna in pubblico, perché era molto bella, edonista e si piaceva parecchio. Io la chiamavo Patty (così voleva che la chiamassi) e mai nonna. Poi si ammalò e pur non conoscendo la gravità della malattia, seguì il suo istinto e si lasciò morire. Non volle alcuna cura. Io l’adoravo perché riusciva a regalarmi momenti davvero indimenticabili. Mi fece, per esempio, un regalo stupendo, per l’età che avevo. Nel 1994, mi portò all’albergo Duca D’Aosta di Milano dove alloggiava l’intera squadra dell’Inter. Mi portò all’interno, attraversando tutta la hall, fasciata nei suoi abiti elegantissimi e nessuno osò chiederle niente. Mi fece conoscere tutta la squadra, il che per un bambino di 12 anni non poteva che essere l’apoteosi. L’ho vista morire sul letto che conoscevo molto bene perché ci dormivo spesso con lei. E questo mi ha scioccato parecchio.
Allora? Come sei arrivato in Kenya, alla fine della fiera?
Prima del Kenya, ero tornato in Australia, nel 2012, dopo due anni trascorsi in Uganda dove ho scoperto la mia vocazione per la prima volta, cioè lo sviluppo delle zone rurali dell’Africa Orientale, facendo soprattutto Business Development. Finito il mio contratto, e non riuscendo a trovarne un altro, mia madre mi propone di reinvestire in Australia, con l’intenzione di prendere la residenza. Così torno lì a 30 anni, e mi rimetto a fare lo studente, prima a tempo pieno, poi continuando a lavorare come commesso e Shop Manager. E’ stato un anno difficilissimo perché sapevo di essere destinato a fare altro e fare il commesso non era proprio la mia massima aspirazione, dopo aver avuto esperienza nel campo della gestione di fondi di centinaia e migliaia di euro. Nel frattempo conosco un’avvocatessa Keniana, che poi è la madre di mio figlio Dante. Stiamo insieme per un po’, ma poi lei diventa una delle frangenti più dolorose della mia vita. Si è incattivita tantissimo, con me, durante la gravidanza e da lì non ha mai più smesso di odiarmi, per ragioni che, purtroppo, tutt’ora ignoro. Si è creata una realtà parallela durante la gravidanza, dove, ai suoi occhi sono diventato ciò che in realtà non sono mai stato né sono. Non ci amavamo come persone che si scelgono per tutta la vita, ma probabilmente, eravamo infatuati di come ci vedevano le persone, giovani, belli, istruiti, che guadagnavano piuttosto bene; eravamo la coppia modello, agli occhi del mondo, ma, evidentemente, non avevamo la chimica da coppia. Quando rimase incinta, io quel bambino lo volevo a tutti i costi, perché sapevo di essere pronto ad essere padre ed a prendermi le mie responsabilità. Ma la conseguenza di tutto ciò è che non mi è permesso, ancora, di crescere mio figlio. Sono stato messo ai margini in tutti i modi possibili ed ho fatto di tutto per combattere questa situazione, anche per vie legali. La storia di Dante è la parte della mia vita più dolorosa, oltre che ad essere, inevitabilmente, la storia d’amore più grande, vista la mia adorazione per lui, e la consapevolezza che un giorno saremo inseparabili.
Che rapporto hai con tuo figlio?
Mio figlio ha sette anni, ora. In quest’ultimo anno l’ho visto davvero molto poco, poiché vive con i nonni materni e con la “scusa” del COVID, non mi è stato permesso di frequentarlo come normalmente faccio. Però sono sempre presente e combatto le mie battaglie, ogni giorno, per lui. Se c’è una cosa che ho fatto molto bene è proprio quello di prendermi tutte le mie responsabilità in toto, a differenza di molti uomini, qui in Kenya, che non si prendono le proprie responsabilità nei confronti dei loro figli. E’ una malattia endemica, più di ogni altra malattia. Ovviamente ci sono le eccezioni del caso. Per mio figlio farei di tutto. Mi sono trasferito qui proprio per stargli vicino ed essere presente nella sua vita.
Quindi possiamo dire che, simbolicamente, AGAR LTD, la tua Azienda qui in Kenya, è nata per dare un futuro a tuo figlio?
Sicuramente e decisamente sì. Tecnicamente AGAR LTD è nata perché c’era un gap commerciale, c’era una possibilità, una potenzialità e la conoscenza del territorio e delle risorse derivata da anni di esperienza nelle ONG. Psicologicamente è nata ed ha preso la parte di un figlio; una start-up è come un figlio, non puoi togliergli gli occhi di dosso h/24, ha bisogno di te continuamente. Poi quando cresce, puoi mollare un po’ la corda, delegando. Tra alti e bassi lo nutri essendo poi consapevole che ad un certo punto lo dovrai lasciare andare. Con AGAR ho trovato la mia dimensione, la mia vita è cambiata in meglio, ho trovato pure la mia nicchia professionale e, finalmente, faccio ciò che volevo fare, come e dove volevo farlo. Non ho nemmeno un piano B, se AGAR dovesse non funzionare e, sinceramente, non voglio nemmeno averlo.
Perché hai scelto proprio il mondo delle fragranze? Cosa hanno le fragranze in comune con te?
In realtà non ho messo in piedi AGAR per andare subito al valore aggiunto ed alla trasformazione. Quella è arrivata al primo anno come conseguenza naturale delle opportunità commerciali che si sono presentate. La parola “Agency” è stata inclusa in AGAR per dar un tono di Commodity Agency. Noi, all’inizio, volevamo spostare soprattutto grossi quantitativi di risorse grezze e non passare subito alla trasformazione. Ma nei primi mesi ci siamo accorti subito del margine che ci dava la gomma arabica, l’incenso e la mirra comprata, pulita e venduta grezza, da quella che ci dava la distillazione e la vendita dell’olio essenziale. Ciò mi ha portato a creare un business plan parallelo dove ho sfruttato la domanda commerciale che c’era, soprattutto per l’olio d’incenso che è il nostro core item. Quindi più che fragranze, trattiamo gli oli essenziali puri. La fragranza è un blend, una miscela, dove trovi anche gli oli essenziali e noi non facciamo blend, se non da quest’anno, dove abbiamo iniziato a fare prodotti a base di Aloe, come, per esempio lo shampoo. Il mondo degli oli essenziali, in particolare l’incenso, è venuto come uno sviluppo verticale, una conseguenza naturale di dove stava andando la compagnia. Invece che muovere la risorsa grezza, abbiamo preso la strada che abbiamo preso, quello cioè della trasformazione e adesso siamo diventati B2B specialist, nonché B2C con il sito, i retailers e quindi un normale sviluppo societario come dovrebbe essere. Abbiamo scoperto gli oli essenziali come conseguenza del nostro lavoro.
Se dovessimo parlare del pianeta multirazziale, tu come lo vedi il discorso del meticciato, della globalizzazione dalla tua prospettiva di uomo di mondo?
Senza cercare di abusare di un cliché, essendo stato cresciuto in un ambiente liberale, il métissage è semplicemente il futuro dell’umanità. Non dovrebbe esistere il concetto di “razza pura” e se mai dovesse ancora esistere, dovrebbe essere relegato a uno di quei sacchi di resistenza al progresso. Io vedo nel mix interculturale, non solo in quello razziale, il semplice futuro dell’umanità . Ma anche geneticamente parlando. I mixed sono più forti, più salutari: è il contrario dell’ imbreeding. Oltre al fatto che quando ero bambino, cresciuto a Porta Venezia, dove viveva la comunità Eritrea, ho sempre avuto una curiosità pazzesca ed un’attrazione ancestrale per le donne di colore (diverso dal bianco). All’epoca, di black-italians ce n’erano pochini, ma abbastanza da farmi capire qual era l’archetipo di donna che mi piace. Mi sono sempre trovato all’interno di relazioni interculturali e mi piace molto come la donna africana ama trattare il proprio uomo, e questo mi ricorda molto l’atteggiamento delle donne siciliane della mia famiglia.
Cosa insegnerai a tuo figlio su come affrontare il suo essere mixed?
In primis l’idea è quella di dargli la consapevolezza di essere di culture differenti e non di razze differenti. Questa cosa dei colori la trovo assurda. In Africa non c’è la cultura Black tipicamente americano, ma c’è una cultura tradizionale, prettamente tribale. Qui in Kenya abbiamo 3 ceppi etnici: i Bantu, i Cushiti e i Niloti, che poi hanno dato origine ad altri gruppi minori e più specifici. Dante ha il nonno Bantu, la nonna nilotica, quindi lui è un Bantu-Nilotico-Siciliano-Milanese. E deve avere tutte quelle identità, deve essere consapevole e, a mio parere, orgoglioso. Per me è importante che lui abbia la consapevolezza di quanto importante sia per lui la conoscenza del passato, di cosa vuol dire essere italiano e keniota ed è importante che abbia un’identità su ambedue i fronti e che si senta italiano tanto quanto keniota, non in base al colore della sua pelle, ma in base alle sue culture.
Ci sto lavorando molto profondamente su questo concetto, Tommaso. Tanti ci sono già arrivati, ma tanti altri sono ancora indietro. Mi sono resa conto che bisogna usare il loro stesso linguaggio per poter costruire, anziché demolire. Demolire è la strada più facile, lo sanno fare tutti, non richiede un granché di impegno se non una piccozza e un po’ di forza fisica (voce-sbraitare-chiacchiere), ed ecco demolire la storia, la cultura e tutto ciò che è scomodo in un risveglio mattutino con le scatole girate!. Costruire, invece, è la via più lunga, più tortuosa e più difficile. Se poi si tratta di costruire ponti, come è la mia ambizione, bisogna essere pronti a far fare il passo successivo a chi ancora non sa come fare. Bisogna equipaggiarsi di nozioni di ingegneristica per protrarsi verso il futuro, mattone, dopo mattone. La mia speranza ed il mio obiettivo è proprio preparare il terreno affinché, chi dopo di me, possa agevolmente costruire quei benedetti ponti. Ogni tanto uso ancora, appositamente, un linguaggio antico, soprattutto quando parlo di razze, creando spesso non poche polemiche. Ma le persone devono capire che solo snervandolo della sua assurdità si può comprendere appieno l’errore in quelle parole. Non bisogna temerle, le parole. Bisogna assumerne la piena padronanza. Ciò che bisogna cambiare sono le teste, non le parole.
Io, comunque, penso che tuo figlio sarà molto orgoglioso di un padre come te e di tutto quello che stai facendo per lui.
Lo spero davvero tanto che si renda conto di quanto ho lottato.
Certo che se ne renderà davvero conto, perché tu stesso te ne rendi conto del fatto che hai fatto una scelta. Quella di stare lì per lui, di avviare un’attività lì, di costruire un futuro per lui.
Grazie! E credimi, lo sento questo complimento più di tutti gli altri che posso aver sentito in questi anni: il fatto che qualcuno mi dia credito semplicemente per esserci stato e non per mollare mi rende, spesso e volentieri, molto emotivo. Sono contento ed ho sempre visto positivamente il fatto che lui sia cresciuto in Africa, perché quello che ho notato è che una volta che sei mixed, in Italia vieni messo nel “basket-black” e secondo me è molto riduttivo. Non capire la ricchezza di due culture, semplicemente messo nell’ambito black solo perché diverso dalla maggioranza bianca. In Kenya lui è diverso; conosce la sua identità europea, ma a differenza della maggioranza bianca, la maggioranza nera lo accetta.
Mi fa piacere che tu, come genitore, abbia capito l’importanza di questa cosa qui. Noi Mixed non siamo neri e non siamo bianchi. Siamo qualcosa di diverso ed è necessario tirare via i prosciutti dagli occhi e vedere che c’è altro. Ci vorrà tanto tempo, soprattutto in Italia, dove ancora siamo indietro su queste consapevolezze. Io non mollo e vado avanti come un treno. Noi Mixed dovremmo capire il nostro valore e la nostra ricchezza ed usarlo sempre per creare interazioni, ponti, comunità uniche. Siamo noi a non darci valore, ci aspettiamo che siano gli altri a farlo e questo è sbagliatissimo.
Ho visto che sulla tua copertina di Facebook hai una citazione che recita: “Gli eroi vanno e vengono, ma le leggende durano per sempre”. Cosa significa per te questa frase?
I miei genitori hanno sempre fatto di tutto per darmi gli strumenti per fare impatto in questo mondo. A 8 anni mamma mi disse: “Guarda che io non ho messo al mondo un uomo ordinario. Io non metterò, su questo pianeta, un uomo qualunque“. E me lo ripeteva tutti i giorni. Quindi sono cresciuto con questa idea che dovevo fare qualcosa di eccezionale. Quando balbettavo mi diceva: “Guarda che balbetti perché il tuo cervello va più veloce della tua lingua“. La cosa peggiore che un genitore può fare è dire al proprio figlio che non può fare qualcosa. E’ limitante in partenza, perché abbiamo noi dei limiti che a nostra volta ci sono stati impartiti. Mamma non lo ha mai fatto, anzi! Mi ha sempre fatto sentire limit-less. Quella citazione specifica è un omaggio a uno dei miei Role Model, che è Kobi Bryant. Kobi era il mio idolo da ragazzo perché era un giocatore di Basket. Ma lui era molto di più di un giocatore di Basket e ce ne siamo accorti quando è morto. Il mondo si è fermato. E’ uno dei miei Role Model perché la sua etica lavorativa era quello che lo ha fatto diventare il miglior giocatore del mondo; l’etica lavorativa è ciò che rende un uomo e una donna una persona che lascia un segno indelebile nella propria storia e in quella degli altri. E se qualcuno mi chiedeva, già a 16 anni, quale era la cosa peggiore che puoi pensare di essere nella vita, la mia risposta era già chiara: INVISIBILE.
Tommaso, ti ringrazio davvero per avermi aperto le porte della tua esistenza. Mi porterò dietro, nel mio scrigno prezioso, la ricchezza d’animo e tutte le storie (anche quelle che non mi è stato possibile condividere qui), che empaticamente, oggi, hai elargito a piene mani, con grande generosità, a me ed ai miei lettori. Se un alchimista è colui che riesce a tramutare situazioni apparentemente negative in situazioni positive, tu sei uno di questi. Affronti continui problemi e difficoltà, ma grazie alla tua tenacia e caparbietà, riesci a trasformarle in opportunità che ti porteranno sempre più vicino al compimento del tuo destino. “La gemma non può essere lucidata senza attrito, né l’uomo può perfezionarsi senza prove”, dice invece, il mio Role Model, che è Confucio. Ed io ti auguro, di tutto cuore, un continuo perfezionamento della tua esistenza, sempre nella reattività che ti contraddistingue.
Sono contento. Mi fa piacere aprirmi e parlare della mia vita, perché mi fa ricordare degli aspetti che mi hanno fatto diventare la persona che sono.
Intervista fatta da:
@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy , MBA Metissage & Métissage Sangue Misto. Mi trovi anche sul Canale Telegram, e su ClubHouse come @wizzylu.