5 Similitudini tra il Veneto e il Biafra.

Durante i riti di conversazione professionale, ufficiale e di conoscenza sociale, la cantilena vuole che io ripeta, ad libitum, di essere Italo-Nigeriana, nella fattispecie, per inciso, per volontà divina e per strani destini universali, sono persino Veneto-Biafrana.
 

L’altra sera, mentre osservavo l’immensità del  cielo alla ricerca della cometa NEOWISE, riflettendo sul senso banale e sullo scopo misterioso del nostro peregrinare in questa dimensione, mi sono chiesta perché alcuni, più di altri, sono investiti di una responsabilità più grande, più profonda e, decisamente, più pesante da portare nel viaggio terrestre. Se è vero quel detto che dice che ognuno di noi ha la sua croce da portare, mi chiedo perché taluni hanno una croce in polistirolo, alcuni in legno, altri in ferro ed altri ancora, in marmo. E’ una domanda che, sinceramente, non trova riscontro in tutti i pensatori, filosofi ed esperti di vita che io abbia mai studiato. Forse dovrò scomodare il mio amato Topolino Disneyano, affinché mi dia una di quelle sue risposte (che poi sono quelle del suo creatore Walt) dal sapore banale, ma che racchiudono in sé il potere (la leva) per ogni illusione.

Ora, avere due culture (che diventano 6 se devo contare anche le sotto-culture!!!) da tenere a bada, in modo equilibrato e meritevole, non è che sia proprio una cosa facilissima. Anche perché sono due culture, apparentemente, agli antipodi e che, voglia o no, prima o poi, la Società te ne chiede conto. E tu ti devi far trovare sempre pronta, perché è la migliore occasione per promuovere, ora l’una, ora l’altra, e dar loro il primo posto sul podio del vincitore.

Chiacchierando, con gli amici, sulle parole in dialetto Vittoriese tipiche del secolo scorso e che ormai, la mia generazione ha completamente perso, sulle leggende dei boschi (al mazariol) delle nostre montagne, sulla storia di queste terre, martoriate dalla peste, dalle carestie e da due guerre allucinanti, mi è venuto spontaneo fare un parallelismo con l’altra mia terra d’origine, martoriata, anche quella, da malattie, carestie e una guerra (quella del Biafra) che, da sola, è valsa dieci guerre mondiali.

Ne sono uscite delle riflessioni davvero sorprendenti e mi sono chiesta perché, sino ad oggi, le persone non siano ancora riuscite a capire che, in sostanza, l’essere uomo, con le proprie fragilità, ambizioni e prepotenze è qualcosa che ci accomuna tutti, in tutte le latitudini e in tutte le longitudini di questo pianeta. Invece, continuano, inderogabilmente a farne una questione di bianco o nero, di destra o sinistra, di combattenti e non combattenti. E’ una questione tanto banale quanto ovvia, così disperatamente semplice. Come è così semplice accostare luoghi comuni e stereotipi a queste due realtà, pur trovando un fondamento di verità.

Come il concetto di “territorialità”, che caratterizza le mie due regioni, con un forte senso di appartenenza alla propria area geografica, da Città in Città, da Villaggio in Villaggio. E che dire del senso della propria cultura? Un Veneto sente nel subconscio che proviene dalla Serenissima Repubblica di Venezia, qualcosa che non si può spiegare o capire bene se non si è nati (o cresciuti) qui; un Veneto ce l’ha dentro. Così un Igbo ha quel senso di appartenenza culturale che ha reso glorioso il Biafra, e che chi la vede dal di fuori non può capire. Ed ancora, la similitudine dell’essere conservatori e tradizionalisti; ambedue sono aperti ad ascoltare nuove idee, nuovi eventi, ma alla fine faranno a modo loro. E’ difficile fare cambiare idea a un Veneto, e tanto meno ad un Igbo e, amando tutti e due le cose semplici e logiche, non sarà facile stupirli con incantesimi o paraculaggini. Essendo popoli piuttosto diffidenti, non è che si riesca ad entrare in simpatia nei primi 15 minuti di conoscenza, a meno che non ci si conosca davanti ad uno spriss o un bicchiere di palmwine. La generosità e l’autoironia sono, poi, una delle risorse di queste due etnie. Un Veneto non cercherà mai di farti ridere mostrandoti il suo lato più “figo”, anzi si vanterà di dirti “so ignorante come el paltàn“, goliardicamente, ovviamente, ma riderà di quella forma di “ignoranza contadina” che era tipica di una volta. E questo non lo farà per mostrare il suo lato più brutto, ma semplicemente per farti sentire a tuo agio. Come difficilmente troverai un Veneto vanitoso, che si mette in mostra o vuole fare la commedia. Anche chi comanda è abituato a mettersi allo stesso livello degli altri, Si parte dal presupposto che si è sempre a disposizione degli altri; pensate che ancora oggi uno dei termini più utilizzati durante i saluti introduttivi è “COMANDI” quasi come dire: sono ai tuoi ordini; oppure con la parola CIAO – che proviene dal Veneto “SCHIAVO TUO” (sciavo tuo) – ed è esattamente la forma di saluto reverenziale che si usava nella Serenissima ed oggi in tutto il mondo. Così anche tra noi Igbo, l’autoironia è la chiave delle relazioni interpersonali e la generosità è la base su cui poggia il fondamento della comunità. Prendi ambedue per il verso giusto e ti daranno il cuore.

Tal cantata, tal sonata.

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Andando un po’ più in profondità, partirò da parecchio lontano, fino poi alle similitudini dell’età moderna, per farvi capire come, in realtà, a ben guardare, le differenze sociali di queste due regioni sono state e sono, sostanzialmente simili. Il primo punto è un po’ particolare, perché richiama un ciclo storico a cui nessuno di noi dà mai importanza. Ma trovo assai stimolante.

1) La Carestia, L’alimentazione ed il COVID 19. Il Veneto dell’inizio del secolo scorso era un paese povero la cui economia era basata prevalentemente sull’agricoltura. L’alimentazione della maggior parte della popolazione era costituita da prodotti quali pane, legumi, verdure, formaggio. La carne era riservata a poche occasioni o alle classi più agiate, insieme ad altri prodotti come zucchero e caffè. La polenta la faceva da padrona. Alimento per i poveri, se mangiata da sola, per i ricchi se fritta o accompagnata da formaggi, salsiccia, funghi, merluzzo. Questo tipo di alimentazione, basato in gran parte sul mais, dal valore nutritivo molto povero, ha come conseguenza il diffondersi della pellagra, malattia causata dalla mancanza di vitamine. Il Biafra (d’accordo……!!!! all’epoca aveva un altro nome!), nello stesso periodo, viveva anch’essa di agricoltura. Verdure, legumi, frutta, pochissima carne, e solo a chi poteva permettersela e l’immancabile Gari (farina di cassava) con cui si accompagnava la maggior parte dei piatti. Il gari è un alimento povero, quindi con poco valore nutritivo, ed essendo il maggior alimento, procurava, anche qui, malattie causate dalla malnutrizione, la pellagra, lo scorbuto, il kwashiorkor ed il marasma. Quindi, queste due regioni sono state caratterizzate, in passato, da un evento comune, quale era la carestia, tradizionalmente associata, appunto, al naturale ciclo del cattivo raccolto in agricoltura, alle malattie infettive ed alle guerre. Non deve sorprendere il fatto che anche in Veneto si abbia sperimentato anche questo evento con tutte le conseguenze che poi ha portato nel corso della storia. Le analogie sono sorprendenti; forse, per certi aspetti, anche sinistre e inesplicabili. Alcuni di voi troveranno poco rilevante, se non addirittura macabro, questo parallelismo, ma lo scopo è quello di fornire spunti di riflessione su situazioni che pensiamo sempre non ci riguardino da vicino. L’accostamento tra la carestia Veneta e quella Biafrana non costituisce affatto un paragone storico né scientifico, né mira a circoscrivere una sorta di paura collettiva, ma, diversamente, serve a riflettere sull’imporsi di alcuni cicli storici, il cui svolgimento è stato sapientemente trattato nei secoli e secoli, giungendo ad un epilogo comune chiamato “COVID-19”.

Secondo una relazione presentata all’Onu, è in arrivo una catastrofe alimentare, dovuta alle conseguenze del Covid-19 e agli effetti dei cambiamenti climatici, e questo ha portato alcuni studiosi a descrivere un futuro dagli scenari apocalittici, rievocando nientemeno che i 4 Cavalieri dell’Apocalisse e le visioni apocalittiche descritte nella Bibbia. Di sicuro stiamo vivendo un ritorno a quel famoso ciclo storico che va sotto il momento medioevale. Circola tra noi la morte e le nostre difese – il lavaggio ossessivo delle mani, le mascherine e anche il distanziamento sociale –  sono riti di protezione non tanto dissimili dal piazzare piccole quantità di sale negli angoli della casa.

La memoria storica umana conosce questi momenti, anche se abbiamo provato a dimenticarli. La tradizione cristiana li associa ai Quattro Cavalieri dell’Apocalisse: il quarto, Morte e Pestilenza, ora con noi, monta un “cavallo pallido” dal verdastro spento dei cadaveri. I primi tre cavalieri simboleggerebbero invece, nell’ordine, la Conquista militare (cavallo bianco, cavaliere con arco), Violenza e Stragi (cavallo rosso, cavaliere con spada), e Carestia (cavallo nero, cavaliere con bilancia). Il punto – molto infelice – è che i quattro non sono cavalieri “solitari”, si muovono insieme…

Quello meno presente negli ultimi anni è stato il cavaliere della carestia. Non siamo stati capaci di eliminare guerre, stragi e violenza, ma – grazie anche alla molto vituperata globalizzazione – è da un pezzo che larghissima parte della popolazione mondiale mangia molto meglio di una volta. Il Direttore del WFP-World Food Program, David Beasley, ha detto al Consiglio che, a causa di una sorta di “perfect storm” di conflitti, siccità, cambiamenti climatici e coronavirus, 265 milioni di persone NEL MONDO potrebbero essere sull’orlo della morte per fame entro fine anno, cosicché: “Potremmo trovarci di fronte a carestie di proporzioni bibliche tra pochi mesi”.

Ora in quel “nel mondo” sta il succo del mio discorso, perché, inevitabilmente, coinvolge anche queste due regioni oggetto della mia spensierata analisi. La pandemia e i lockdown, insieme con il crollo del prezzo del petrolio, stanno massacrando le economie di una trentina di nazioni già a rischio alimentare, limitando la possibilità di spesa dei più poveri, ostacolando la produzione agricola locale e sfasciando le catene logistiche che fanno arrivare i viveri da fuori. Al tempo stesso, la crisi economica europea ha fortemente ridotto le rimesse degli emigrati, si stima fino all’80-90 per cento. Tutto questo in paesi i cui governi non hanno la forza economica per reagire con efficaci aiuti alla popolazione. Non è il caso di sfruttare troppo la metafora dei Quattro Cavalieri, ma è difficile dimenticare che il racconto  – che appare nell’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse – è una profezia, una profezia che preannuncia la fine del mondo e gli eventi che la precedono. In altre parole, potrebbe andare ancora peggio…

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2) Gestualità vs Emeghari Ahù

In lingua Igbo, sotto la parola “Emeghari Ahù” vanno declinate tutte quelle gestualità usate per conversare ed aprirsi agli altri.

E’ risaputo, grazie allo psicologo statunitense Albert Mehrabian, che, in comunicazioni faccia a faccia, le componenti comunicative si rapportano tra loro secondo precise percentuali partecipative: le parole del linguaggio verbale concorrerebbero per il 7% al raggiungimento della pienezza semantica; il “tono della voce” per il 38%, mentre il restante 55% verrebbe assolto dal “linguaggio corporale”. Ciò che Mehrabian voleva soprattutto porre in evidenza è che, in caso di ambiguità o addirittura di contraddittorietà fra i messaggi veicolati dai due diversi mezzi di comunicazione, verbale e gestuale, è probabile che il significato “vero” sia quello trasmesso dal linguaggio corporeo piuttosto che quello trasmesso dal linguaggio verbale.

Così, le espressioni del viso, i movimenti delle dita e delle altre parti del corpo, il modo di vestire, di camminare, il tono della voce, ecc., ci permettono di comunicare senz’altro meglio di quanto riusciamo a fare con le stesse parole. Che un veneto abbia il suo modo di esprimere tristezza o un biafrano di parlare, non è determinato al momento della nascita, ma è appreso durante la crescita. Come il carattere di una persona, anche i gesti che accompagnano il linguaggio dipendono dall’ambiente naturale e culturale in cui si vive. Non riuscite, sicuramente, ad immaginare che effetto questo possa avere in una persona cresciuta in due ambienti culturalmente all’opposto. Ma provo a spiegarvelo.

Sentimenti ed emozioni vengono espressi da ognuna di queste culture con gesti differenti, tanto che quando si incontrano persone dei due paesi non mancano, a seconda dei casi, divertenti o spiacevoli equivoci. Il Veneto ha un dizionario mimico ben nutrito e piuttosto votato alla gesticolazione,  l’insieme, cioè, dei gesti inconsapevoli, spontanei, istintivi e idiosincratici che non compare quasi mai senza essere accompagnato dal linguaggio parlato. Il Biafrano, per contro, è votato alla pantomima, che, per definizione, è una comunicazione non accompagnata da parole ma soltanto da clic, da fonosimbolismi o da effetti sonori onomatopeici o ideofoni (iushhh! ssssss!! ecc.).

Il punto d’incontro tra le due culture sta negli  emblemi o gesti simbolici, gesti molto più codificati e condizionati culturalmente, tanto da poter spesso essere individuati diatopicamente (gesti italiani, gesti biafrani, gesti yoruba, gesti siciliani, ecc.) sia dal punto di vista del significato, sia dal punto di vista del significante. Può accadere infatti che lo stesso gesto sia investito di significati diversi in aree diverse: per esempio, l’apertura del palmo della mano, in posizione verticale, può essere, per il Veneto un segno di “aspetta”, “stop”, per il biafrano, invece, è un offesa, un “sei un idiota”.

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Un altro punto d’incontro sta nello stereotipo culturale, in base al quale si suol dire che, i Veneti da una parte, e i Biafrani dall’altra, sarebbero i popoli che fanno maggiore uso di gestualità, o meglio, di gesticolazione. Qualcuno, addirittura, giunge a mettere questa esuberanza gesticolatoria in relazione con la loro profonda ignoranza ed incapacità di espressione verbale. Ovviamente più sciocchezze di questi pregiudizi non potevano partorirle, ma dobbiamo ammettere che, a differenza di altre culture nelle quali esiste un forte stigma nei confronti della gestualità, in queste due popolazioni è completamente assente, se non per alcuni gesti coperti da tabù.

Certo è che l’uso della gestualità e le caratteristiche che la compongono, in questi due popoli, trovano un applicazione molto alta e slegata da qualsiasi stigma e/o freno;  forse un’espressione di forte indipendenza e testardaggine, o semplicemente una capacità comunicativa legata alla struttura mentale, al proprio personalissimo modo di percepire la realtà. E, nonostante vi sia una variabilità considerevole, tanto nei sistemi gestuali, quanto in quelli stilistici, in comune hanno, senza dubbio, lo scopo di rafforzare il concetto che si vuole esprimere, e, per taluni , rimarcare la propria creatività.

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3) Il ruolo dell’uomo e Il ruolo della donna.

Qui il rischio è di cadere nella trappola dello stereotipo di genere sul ruolo sociale uomo/donna, e sinceramente non è qualcosa di cui mi interessa approfondire, ora.

Genere non è solo un concetto culturalmente specifico e dinamico che varia tra le culture, ma è anche un concetto relazionale: si riferisce a donne e uomini e al loro modo di interagire. Ciascuno di noi crea quotidianamente il genere, senza pensarci. Tra le prime cose che notiamo in una persona sono proprio la sua appartenenza sessuale e il livello di corrispondenza tra caratteristiche anatomiche e l’idea di donna e di uomo che ci aspettiamo, che accettiamo. L’ Identità di genere è la percezione sessuata di sé e del proprio comportamento, acquisita attraverso l’esperienza personale e collettiva. E’ una delle componenti fondamentali del processo di costruzione dell’identità. I ruoli di genere inoltre sono modelli che includono comportamenti, doveri, responsabilità e aspettative connessi alla condizione femminile e maschile e oggetto di aspettative sociali. Su di essi si basano la divisione sessuale del lavoro e l’attribuzione delle responsabilità nella sfera matrimoniale e della riproduzione sociale.

Sicuramente, i Biafrani sono  molto sensibili al ruolo di genere e a quelli binari che ne derivavano. Nella società Igbo, la posizione degli uomini e quella delle donne è netta; ci si aspetta che gli uomini siano duri, forti, aggressivi e audaci, mentre le donne devono essere docili e materne. La stretta struttura del potere patriarcale significa che gli uomini dominano la società in quasi tutti i modi, ricoprendo posizioni di leadership e ricevendo più privilegi rispetto alle loro controparti. Anche le donne possono acquisire un’impressionante statura socioeconomica, ma di solito ciò avviene attraverso potenti lignaggi, sposandosi in una famiglia potente. Le donne sono apprezzate, ma sono anche viste come controllabili. Le donne sposate acquisiscono sempre più rispetto dagli anziani e ci si aspetta che dia presto alla luce dei figli, allo scopo di continuare la linea  genealogica e di assicurarsi il proprio posto in famiglia.

E in Veneto? come funziona sta faccenda? Sicuramente, come in Igboland, i tempi moderni hanno forgiato una nuova generazione in grado di applicare altri tipi di crismi nel determinare il ruolo di genere.

Nella Società di oggi ci sono vari stereotipi di genere sia maschile che femminile. Alcune persone si identificano, altre fanno fatica a far coincidere il proprio sentire con il modello di identità di genere proposto. C’è chi poi rifiuta I modelli sociali e culturali proposti. Devo dire, però, che sino a qualche decennio fa, anche in queste latitudini le posizioni erano tendenzialmente simili. E senza andare tanto indietro, mi è capitato di assistere e vivere situazioni che, a rigor di logica, l’età moderna avrebbe dovuto già spazzare via da un bel po’. Parlo di situazioni in cui il radicamento degli stereotipi sui ruoli di genere è ancora in auge dando spazio agli atteggiamenti e comportamenti violenti.

La conoscenza di questi radicamenti sono le chiavi di lettura, in ambedue le società, per comprendere il simile contesto culturale in cui, poi, le reazioni violente trovano genesi. Sicuramente in comune vi sono proprio questi stereotipi e cioè che “per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro”, che “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche”, che “è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia” o, che “spetta all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia”. E che dire della ciliegina sulla torta in cui si ritiene che “le donne sono considerate oggetti di proprietà”? Non sfugge anche le similitudini sulla causa principale per cui tutte queste idee sono retaggi di esperienze vissute in famiglia nel corso dell’infanzia, o perché gli uomini non sopportano l’emancipazione femminile, o la convinzione che la donna sia l’unica responsabile (nel modo di vestire, negli atteggiamenti troppo “aperti”, nell’uso o abuso di sostanze stupefacenti o alcool) di una qualsiasi forma di violenza subita.

Insomma ci troviamo ad approcciare un terreno sabbioso e fastidioso, nel quale la maggior parte della gente non vuole entrare, perché “così lontana dal proprio modo di concepire la vita“… eppure quel “troppo lontano”, come vedete, è più vicino di quel che non si vuole vedere.

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4) Il concetto di divertimento (Spriss vs Nkwu Elu/Mmi-anya)

Passiamo decisamente a qualcosa di più leggero e più divertente. La cultura del divertimento nelle due società è assolutamente molto sacra. E non poteva che essere così.  Il divertimento fa parte della storia dell’umanità come un elemento sacro. Ogni cultura conserva momenti speciali per spezzare la routine della vita quotidiana e lasciare spazio al tempo da condividere con la comunità. Rappresentano momenti molto emozionanti perché presuppone allegria condivisa, espressioni artistiche e un incontro affettivo con gli altri. Ed ecco che, in comune, queste due società hanno il proprio bagaglio strumentale con cui allietare questo momento di interruzione.

In Veneto ci si vota allo spriss (conosciutissimo long drink, aperitivo alcolico veneto, appunto, a base di prosecco, Aperol  – o Campari – e acqua frizzante o seltz), alle sagre a tema (ricordatevi che ci sono più sagre in Veneto che in tutta Europa, alcuni paesi riescono a fare anche 3 edizioni dellla stessa sagra!),  le feste dei patroni, le balere e i circoli ricreativi (per anziani e bambini). Un Veneto vive di festa, in tutte le sue forme, l’importante è che vi ci sia da bere e da mangiare. Le piazze si riempiono anche se la festa non ha un nome. Come si dice da queste parti, per far uscire un Veneto, ci sono queste parole chiave: SAGRA – SPRISS – FESTON- MONA.

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E così un Biafrano. Vivere la comunità è più che sacro; per iniziare la festa basta un vassoio di Oji- cola-nut (per dare il benvenuto agli ospiti), un bicchiere di Mmi-anya- Palm wine, ahu ekere-granut e un’ aghara-gardenegg. Dopo la cerimonia di benvenuto, le feste proseguono con l’immancabile musica (strumento principale sono i tamburi in diverse fattezze), canti e balli. L’idea comune di base è il senso della festa. Basta un niente per creare l’occasione e trasformare un momento anonimo “x”, in un giubilo di serenità e divertimento. Una nota importante riguarda il Carnevale: come per i Veneti, anche i Biafrani  fanno un uso molto importante delle rappresentazioni in maschera e corrispondono, periodicamente, ora alla celebrazione di una ricorrenza particolare, ora a rammentare gli spiriti degli antenati e quelli guida. Tra le parate di maschere visibili al pubblico (eh già, perché esistono anche riti molto privati con esibizione di maschere particolari, visibili solo ad un pubblico prescelto dagli anziani e dalla congregazione del villaggio, e che la loro presenza si ode solo durante la notte!) che più adoro, c’è quella di “Mmanwu” , che letteralmente significa “spiriti della morte. Lo adoro perché, sin da bambina, mi ha accompagnata durante le mie scorribande nel mio piccolo villaggio … era uno spirito particolare.. perché un po’ faceva quello che volevo io (crescendo capii che era solo una mia chimera!) e, per una sorta di illusione infantile, avevo la percezione di avere in mano le forze del bene e del male. E’ una sensazione di onnipotenza indescrivibile!

5) Denaro (Schei vs Ngwugwu ego)

E qui tocchiamo il fulcro della similitudine dell’essere Veneta e Biafrana; il concetto del lavoro e del denaro. Siamo (ehhh sì!! Tutti e due!!) dei somari da lavoro. Come si dice con termine moderno? Dei stacanovisti. Come Veneta non posso che sciorinare quel famoso detto “lavorar a muso duro e baeta fracada“, vale a dire, “lavorare a testa bassa e avanti tutta“. Una filosofia ereditata dai nostri vecchi sin da piccoli, pronti ad inculcarci il senso delle responsabilità, del duro lavoro, del “tacere, tirarsi su le maniche e fare“, e del valore del denaro (che ovviamente va sempre messo via, “perché del doman non vi è certezza“), del “non fare il passo più lungo della gamba, ma rischiare se le spalle sono coperte“.

Così, da Biafrana, non posso che dire che la nostra identità è legata, in una piccola parte decisamente fondamentale, al produttivismo, alla continua ed inarrestabile espansione economica e all’ascesa sociale. Quando si tratta di scambi commerciali e di trading, stai sicuro che vi è lo zampino di un Igbo. Difficilmente troverai un settore in cui gli Igbo non godano di una forte partecipazione o influenza.

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Come noi Veneti abbiamo i nostri vari  Benetton, Polegato (Geox), Rossi (Diesel), De Longhi, Del Vecchio (Luxottica) …etc… così, noi Biafrani, abbiamo i nostri Nnamdi Azikiwe, Tony Elumelu, Tony Izenna, Ifeanyi Ubah…etc…

Praticamente il famoso detto Veneto  “avere in scarsea zinque schei de mona”, (avere in tasca cinque monete), è la soglia minima per non essere considerato un “pore can“, e su questo, anche gli Igbo, sono profondamente, precisamente, entusiasticamente d’accordo!

 

@Wizzy, Afro Bodhisattva, Entrepreneur, Multipotentialite Wantrepreneur, Physical Anthropologist, Freelance researcher of African Studies, culture, tradition and heritage, CEO Dolomite Aggregates LTD and Founder IG MBA Métissage Boss Academy ,  MBA Metissage & Métissage SangueMisto. 

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